Quella Strada Romantica che da Wurzburg conduce fino a... Dallas

Quella Strada Romantica che da Wurzburg conduce fino a... Dallas
© foto di Doniselli/Ciamillo

(di FRANCESCO RIVANO). Tempi duri per i tifosi dei Dallas Mavericks. Non solo si sono visti soffiare da sotto il naso il loro uomo franchigia Luka Doncic, ma qualche notte fa hanno dovuto assistere anche all’infortunio di Kyrie Irving dando così definitivamente l’addio alla riconferma del titolo di campioni della Western Conference. È per questo che mi sento in obbligo nei loro confronti e ho deciso di evocare per i simpatizzanti dei Mavs dolci ricordi.

Se qualcuno mai dovesse chiedermi, spinto da chissà quale curiosità nei confronti dei miei interessi, quale sia il personaggio che mi ha fatto innamorare dello sport, la mia risposta sarebbe una e una sola; non Michael Jordan o Kobe, né Magic Johnson o Larry Bird bensì Gary Lineker. Alzi la mano chi di voi conosce Gary Lineker, uno dei giocatori più talentuosi, affascinanti  e concreti, non solo del calcio britannico a cavallo fra gli anni ’80 e ’90, ma di tutti i tempi e a tutte le latitudini. Le sue caratteristiche principali erano l’eleganza, una coordinazione pazzesca, la freddezza sotto porta e soprattutto l’umiltà e la dedizione al lavoro. Un uomo enorme prima ancora che un grande campione, insomma, un romantico del calcio, in grado di concludere la carriera senza mai vedersi sventolare sul naso l’ombra di un cartellino giallo, figuriamoci quello rosso. Miglior marcatore All Time della sua nazionale nei campionati mondiali con dieci reti realizzate e un viaggio nel mondo del calcio, scandito a suon di gol, partendo da Leicester fino ad arrivare in Giappone, passando per Liverpool sponda Everton, Barcellona e Tottenham. Siamo nella Torino del 1990, in un’Italia molto più serena e spensierata di quella odierna; la sera prima, tutti noi italiani, all’epoca molto più attenti alle sorti della Nazionale di calcio, abbiamo patito una cocente delusione: l’uscita a vuoto di Zenga sull’incornata di Caniggia, gli occhi spalancati e increduli del compianto Totò nazionale, la serata di grazia dell’insormontabile Goycoechea e  Maradona, che nella “sua” Napoli si guadagna la finale mondiale, alzando definitivamente la puntina del grammofono dal disco che suonava l’intramontabile duetto Nannini – Bennato. La partita contro l’Albiceleste ha anestetizzato un paese intero che, con disinteressata svogliatezza, segue le sorti della seconda semifinale tra inglesi e tedeschi. La partita si conclude ai rigori dopo l’uno a uno firmato da Andy Brehme e dall’inesorabile Lineker e a spuntarla sono i crucchi. È da li che nasce una delle più grandi verità del calcio ed è proprio Gary Lineker a svelarla: “Il calcio è un gioco semplice: 22 uomini rincorrono il pallone per 90 minuti e alla fine la Germania vince”. Nel calcio. E nel basket?

Dobbiamo aspettare gli anni ’80 per vedere i teutonici con la palla a spicchi tra le mani tra le prime dieci nazionali a livello europeo, grazie all’apporto di quello Schrempf scelto dai Mavs e finito a Indianapolis dove verrà onorato del riconoscimento di sesto uomo dell’anno nei primi anni ’90. Addirittura nel 1993 la Germania riesce nell’intento di vincere il campionato europeo ai danni della più rinomata Russia, ma il basket in terra di Germania non è mai stato accattivante quanto il calcio, almeno fino a quando a Wurzburg è nato Dirk. Wurzburg, sulle sponde del fiume Meno è uno dei due capolinea della Strada Romantica, uno dei percorsi turistici più battuti in Germania, e non può che essere ricca di romanticismo la carriera del suo figlio prediletto. Non so se sia un caso o se sia stato il disegno divino di chissà quale Dio dello sport che a sedici anni mette in connessione il giovane Dirk con Holger Geschwindner, sta di fatto che i due creano una combo indissolubile e perfetta. Ad affiancare il lavoro in palestra non sono le solite partite al campetto ricche di testosterone che potete trovare nei racconti dei ragazzi afroamericani. In questo racconto a farla da padrona sono la lettura e la musica. Dirk viene plasmato da Holger come fosse il vaso di terracotta accarezzato dalle dolci mani di Demi Moore in Ghost, una formazione puntigliosa e consapevole di chi sa che da quel corpo e da quelle mani uscirà una delle pagine più incredibili del basket del vecchio continente. Holger pianifica tutto alla perfezione e l’occasione di mostrare il suo gioiellino al mondo la sfrutta alla grande. Nike Hoop  Summit 1997, Dirk ridicolizza i migliori prospetti made in Usa come Rashard Lewis e Al Harrington e pare ne abbia messo 52 in faccia a Scottie Pippen sempre nel corso della medesima manifestazione, il tutto sotto gli occhi di Charles Barkley. Chuck rimane folgorato e cerca in tutti i modi di portar con se il giovane biondino negli Usa ma Dirk è tedesco ed inquadrato e rispedisce al mittente, senza troppi fronzoli, le attenzioni a lui rivolte con un freddo: “Grazie Sir, ma quest’anno devo asolvere ai miei obblighi militari.”  La NBA non deve aspettare poi così tanto per dargli il benvenuto e solo un anno dopo, nel 1998, Dallas si affida ancora una volta a un tedesco, dopo Schrempf, scambiando Pat Garrity e Robert Traylor con Milwaukee per avere tra le mani il prospetto incensato da Barkley. L’anno da rookie non è dei più felici; portare in giro per gli States quel caschetto biondo e quella pelle albina a fronteggiare i testosteronici fratelli neri è come pretendere di sfilare in passerella, durante la settimana della moda di Milano, in sandali e calzini bianchi (cosa che tra l’altro piace particolarmente ai turisti tedeschi). Sembra il solito buco nell’acqua, un classico nei Draft d’ogni epoca, che fa il paio con la singolare volontà dei Clippers di usare la prima scelta assoluta per chiamare Michael Olowokandi. Ma Sir Charles e Holger sanno bene come andrà a finire. Dalla seconda stagione in poi Dirk non si guarda più indietro, una crescita imprevedibile ed inesorabile che porta l’intera lega a rivalutare il ruolo di Ala forte e di andare alla ricerca di suoi cloni. Un quattro in grado di allargare il campo in modo talmente estremo da diventare uno dei migliori tiratori dall’arco dell’intera NBA. I primi anni, con l’amichetto canadese, sono il romanticismo applicato al basket, quando poi Nash lascia il Texas per l’Arizona, Dirk si carica sulle spalle i Mavs e li trascina sistematicamente ai playoffs. Costantemente sopra il ventello a partita per la prima decade del 2000 e anche oltre, diventa un abitué della gara delle stelle, occasione nella quale non ha mai trovato lo stesso agio mostrato dai colleghi Shaq o Dwight Howard. La carriera di Dirk viaggia a gonfie vele dal punto di vista statistico e i Mavs diventano una realtà concreta della sponda occidentale del Basket NBA fino ad arrivare nel 2006 a disputare le Finals. Dirk, nel momento più florido della sua carriera sembra un treno in corsa che nessuno può fermare, almeno finché non imbocca un tunnel talmente lungo e buio dal quale crede di non poter più uscire. I Mavs, per la prima volta sul palcoscenico finale della stagione NBA, si trovano avanti 2-0 e sopra di 13 in gara 3 contro Miami a 6 minuti dal termine. Sembra fatta. E invece? Black out, via la luce, un buio profondissimo interrotto solo dagli abbagli di un Flash che arriva all’improvviso a sferzare e ledere quegli occhi assetati di un piccolo filo di luce che possa ridare speranza. Quel Flash in maglia Heat con la numero 3 che interrompe i sogni di gloria di una squadra e del suo leader fin li in grado di comandare la propria nave e farla navigare  attraverso gli scogli più appuntiti di un mare burrascoso come quello della Western Conference. Non c’è rimedio contro quel buio e la luce arriva solo per accendere i riflettori su Pat Riley che alza a Dallas il Larry O’Brien Trophy. Un tedesco non sa perdere e soprattutto sa come rialzarsi dopo una grande sconfitta, lo insegna la storia, e Dirk nella stagione successiva nella storia ci entra di prepotenza, diventando il primo MVP della regular Season che non batta bandiera statunitense, permettendo ai suoi Mavs di aggiudicarsi il posto in pole position nella griglia di partenza dei playoffs della Western Conference. Il barone questa volta non è rosso, come l’eroe tedesco Manfred von Richthofen dominatore dei cieli della prima guerra mondiale, ma è nero e anche piuttosto infervorato, come tutti coloro che entrano alla Oracle Arena di San Francisco spingendo gli Warriors di Baron Davis nell’impresa di eliminare la numero uno partendo dall’ultima tacca della griglia playoffs. Altra delusione cocente per i Texani e soprattutto per Dirk che viene etichettato come un fenomenale e romantico perdente.

Le etichette a volte segnano le persone vita natural durante, imbrigliandole in una confusione mentale che impedisce loro di raggiungere i propri obiettivi anche se ampiamente alla portata. Non è il caso di Dirk: volontà, umiltà, dedizione al lavoro sono componenti che alla lunga premiano, figuriamoci se sommate a due mani con le quali la natura è stata particolarmente generosa. Holger non lo abbandona e l’equilibrio mentale del tedesco abbinato all’equilibrio fisico insito nella coordinazione perfetta del più bello e produttivo Fade Away che si sia mai visto, portano Dirk a rigiocarsi le Finals nel 2011, nuovamente contro gli Heat, nuovamente contro Flash al quale nel frattempo sono stati affiancati Le Bron e Chris Bosh. È follia pensare di battere quegli Heat, sembra che il basket Nba si materializzi di fronte a Dirk ,nella persona di due arrogantelli ragazzi di colore, a sbeffeggiarlo e dirgli, dopo qualche colpo di tosse come a provocarlo, “caro ragazzo, oltre non si va, non è terreno adatto al tuo cammino, voltati e torna indietro”. Dirk prende per il bavero il basket Nba, se lo siede accanto e gli spiega il gioco, nonostante un tendine della mano mal concio, nonostante la febbre. Forse è stata una delle, se non l’unica finale, nella quale abbia parteggiato clamorosamente per una squadra piuttosto che per l’altra. Non perché sia stato spinto dalla scelta di Le Bron che ha innescato il moto perpetuo e fastidioso degli haters, ma perché la magnificenza e il romanticismo del gioco espresso da Wunder Dirk nel 2011 è stato per me come una droga alla quale non poter rinunciare, dalla quale entrare subito in astinenza, dalla quale godere di un trip esagerato senza mai cadere in down. Titolo a Dirk, equilibrato e allo stesso tempo folle tanto nel suo gioco quanto  nella sua reazione post vittoria che lo porta a piangere nello spogliatoio. Oh, a proposito di follia, Jason Terry aveva già visto tutto ancora prima di iniziare la stagione, tatuandosi il trofeo di campione NBA su un braccio, ma quella del Jet è un’altra storia. I Mavs non vinceranno più il titolo negli anni a seguire e neanche ci andranno vicino se non l’anno scorso, ma il tedesco ha continuato a perforare la retina alzando quelle tre dita all’europea a sottolineare ogni tripla proveniente da Wurburg, alzando quella gamba, nel suo movimento classico di tiro, rendendo unico un rilascio inarrestabile, lasciando uscire da qui polpastrelli delle gemme preziose in grado di viaggiare sulla Strada Romantica verso il canestro.  Ha continuato imperterrito, preciso come un tedesco sa essere, fino ad arrivare a bussare 30.000 volte alle porte dell’Olimpo, prima che quelle porte gli venissero aperte. Ad accoglierlo Kareem, Karl, Kobe, Michael e Wilt (Le Bron era ancora lontano). Folle pensarlo a quel Nike Hoop Summit del ‘97, folle pensarlo nel 2006 all’ American Airlines Center mentre gli Heat festeggiano il titolo, folle pensarlo dopo la sculacciata subita dal Barone nel 2007. Folle per tutti, tranne che per Holger, e le sue lacrime, al 30.000esimo punto segnato dal suo ragazzo, sono quello che di più romantico ci possa essere nel vedere un progetto andare in porto alla perfezione così come era stato ideato fin dal principio, con precisione tedesca. A nulla sono valsi i cori di tuta l’Arena che lo hanno implorato di restare durante il giorno del suo addio a Dallas, d’altronde Dirk è tedesco e quando i crucchi prendono una decisione quella resta.

Ricordate Gary Lineker  e la sua affermazione sul calcio post Inghilterra vs Germania del ’90? Credo che se chiedessimo a Gary un parere sul basket NBA, risponderebbe così: “Il basket NBA è un gioco semplice: dieci uomini lanciano per aria un pallone per 48 minuti e alla fine un tedesco nato a Wurzburg fa sempre canestro”. Semplicemente Wunder Dirk.

----- Francesco Rivano nasce nel 1980 nel profondo Sud Sardegna e cresce a Carloforte, unico centro abitato dell'Isola di San Pietro. Laureato in Economia e Commercio presso l'Università degli Studi di Cagliari, fa ritorno nell'amata isola dove vive, lavora e coltiva la grande passione per la scrittura. Circondato dal mare e affascinato dallo sport è stato travolto improvvisamente dall'amore per il basket. Ha collaborato come redattore con alcune riviste on line che si occupano principalmente di basket NBA, esperienza che lo ha portato a maturare le competenze per redigere e pubblicare la sua prima opera: "Ricordi al canestro" legato alla storia del Basket. Nel 2024 ha pubblicato la sua seconda, dal titolo "La via di fuga" Link per l'acquisto del libro.