Dennis Johnson: il miglior cattivo, il miglior collante dei Boston Celtics

Dennis Johnson: il miglior cattivo, il miglior collante dei Boston Celtics
© foto di nba.com

(di FRANCESCO RIVANO). Se c’è una cosa che qualsiasi uomo è capace di non dimenticare è il luogo in cui era e quello che stava facendo nel momento in cui è accaduto un evento che ha avuto su di esso un impatto emotivo considerevole. È come se, nel momento in cui ricevessimo una notizia rilevante, la nostra memoria scattasse una polaroid e la fissasse in cima alla nostra bacheca dei ricordi vita natural durante. Era una domenica sera, appena uscito dalla doccia, preso posto sul divano con la TV accesa su un Napoli-Juventus qualsiasi, attendevo la palla a due della partita domenicale della NBA. Beffardamente Denver, Colorado, città simbolo della battaglia legale di Kobe per abuso sessuale nel 2003, era lo scenario della sfida fra Jokic e il suo attuale compagno Russell Westbrook all’epoca a Houston. Le immagini di quella nuvola di fumo e delle lamiere accartocciate sulla collina di Calabasas presero il sopravvento e  sconquassarono il mio animo e quello di milioni di tifosi, appassionati o semplicemente essere umani.. Sono passati 5 anni e la leggenda di Kobe e Gigi vive ancora e, almeno per quanto mi riguarda, non morirà mai. A rendere Kobe immortale ai miei occhi non sono stati tanto i 5 titoli vinti quanto il suo atteggiamento, la sua etica del lavoro, insomma per farla breve, la Mamba Mentality che ha ispirato e ispira ancora gli sportivi, e non solo, in giro per il mondo. Se dovessi scegliere il periodo che più mi ha appassionato nella carriera di Kobe mi troverei in difficoltà: l’exploit in gara 4 contro i Pacers nel 2000, il three-peat al fianco di Shaq, le prestazioni “da solo sull’isola” di metà anni 2000, ma il triennio 2008-2009-2010 che lo portò ancora una volta ai vertici forse è quello che ho preferito. Le due sfide contro gli eterni rivali dei Celtics inframmezzate dal titolo guadagnato contro i Magic. Una sconfitta contro la Boston del 2008 vendicata nel 2010. Quello è forse il “mio Kobe preferito” con la 24 sulle spalle, contro i Celtics dei Big Three più uno.

24 sulle spalle e Big Three più uno! Se sommo questa frase a un destino beffardo non dissimile a quello del Black Mamba, si apre uno scenario che, partendo da Seattle, passando per l’Arizona, arriva fin dove Kobe era più odiato, in quel palazzetto in cui il Purple&Gold provoca ancora oggi allergia: il Boston Garden. I più giovani ricorderanno la conformazione dei Celtics anti Kobe di fine anni 2000: Kevin Garnett, Paul Pierce, Ray Allen accompagnati da un play dal carattere (oltre che dal tiro) particolare: Rajon Rondo. Facciamo un salto all’indietro sino a metà anni ’80. Ancora i Celtics, ancora tre campioni, Larry Bird, Kevin McHale e Robert Parish accompagnati anche in questo caso da un play dal carattere particolare: Dennis Johnson, per tutti DJ.

Ottavo di sedici figli nella periferia di Los Angeles, Dennis si forma caratterialmente settando il suo percorso di vita sulla combattività. Strenua difesa per resistere in casa contro i fratelli, lotta serrata per strada fra Compton e San Pedro. È il padre a indirizzarlo sulla retta via del Basket ed è Jim White del Harbour College a dargli una chance. Penserete voi che il nostro Dennis sia stato riconoscente nei confronti di chi, notandolo nei playground, gli abbia tolto da sotto il culo il sedile di un muletto e consegnato nelle mani un pallone da basket. Niente da fare, Dennis è riconoscente solo nei confronti di se stesso e della sua capacità di restare a galla e litiga, con White, con amici, avversari, arbitri e chiunque sia in disaccordo con lui. Il giocatore c’è ma il carattere spaventa ed è per quello che al Draft del ’76 viene scelto solo alla 29esima chiamata dai Super Sonics. 24 sulle spalle, due Finals contro i Bullets di Washington di cui una vinta da MVP, tanti litigi e trasferimento a Phoenix. Anche in Arizona la 24 sulle spalle, ma questa volta mai realmente vicino a poter competere per la vittoria. Ma una cosa non cambia: la litigiosità. Coach McLeod non gli va a genio e via di nuovo sul mercato dal quale spunta un nome al qual è difficile resistere, una personalità alla quale è difficile opporsi e con cui è meglio non scontrarsi: Red Auerbach.

Il 24 sulle spalle diventa il 3, forse perché DJ è il collante che serve a tenere uniti quei 3 mostri sacri di Larry, Kevin e Robert. Dennis Johnson diventa il tassello mancante per rendere la difesa dei Celtics al livello dell’attacco e permettere a Red di accendere ancora tanti sigari durante la cruenta rivalità a Est con i Sixers e a livello totale contro i soliti Lakers. Assistenze ai Big Three con la palla in mano e francobollo umano ai danni di Magic sotto il proprio canestro, ma soprattutto cattiveria intrinseca canalizzata sull’aggressività difensiva, come quando si doveva difendere in casa dai quindici fratelli, come quando si doveva difendere per strada a Los Angeles. La carriera di DJ ai Celtics è strepitosa, due titoli NBA e tassello fondamentale di un gruppo, quello della stagione 1985/1986 che segna l’81,7 % di vittorie in Regular Season. È l’anno del titolo numero 16, l’ultimo prima di quello strappato a Kobe nel 2008, ma è anche l’anno in cui DJ deve subire l’avvento del nuovo che avanza e che da lì in poi porrà le basi per spazzare via tutto e tutti. Gara 1 del primo turno dei playoffs del 1986 si è appena conclusa e DJ, riconosciuto a livello globale come uno dei migliori difensori della Lega, è sotto la doccia con il referto in mano. Fra una goccia d’acqua e una nuvola di sapone scorge imbestialito i 49 punti messi a referto dal 23 dei Bulls. “La buona notizia è che li abbiamo battuti, ma Michael non giocherà mai più un’altra partita come questa.” Non sapeva nemmeno lontanamente quanto avesse scommesso contro la persona sbagliata! In Gara 2 il 20 Aprile del 1986 Dennis se la deve vedere con “Dio travestito da Michael Jordan.” Ancora una volta la vincono i Celtics che da li in poi non si guarderanno più indietro fino al titolo, ma DJ se ne vede stampati in faccia ben 63.

La carriera del “migliore difensore di back court di tutti i tempi” (parola di Magic) nonché del “miglior compagno di squadra che abbia mai avuto” (parola di Larry) si conclude agli albori degli anni ’90. Dennis resta nella Lega prima come osservatore, poi come assistente fino a scendere nella lega di sviluppo come coach degli Austin Toros. Ed è nel Texas che Dennis incontra un avversario più temibile del Magic dello Show Time, più letale del Jordan del doppio three-peat. È il 22 febbraio del 2007 e nel parquet dell’Austin Convention Center una signora con un cappuccio nero in testa e una falce tra le mani lo batte in penetrazione fermando il suo cuore e andando a canestro. Come Pistol Pete a Pasadena, come Drazen sulle strade di Denkendorf, come Kobe a Calabasas, DJ lascia dietro di se una scia di tristezza e di incredulità che ha sconquassato il cuore di migliaia di appassionati o semplicemente esseri umani. Persone, che ricorderanno per sempre dove erano e cosa stavano facendo quando hanno appreso che Dennis Johnson non avrebbe più fatto parte del loro mondo.

----- Francesco Rivano nasce nel 1980 nel profondo Sud Sardegna e cresce a Carloforte, unico centro abitato dell'Isola di San Pietro. Laureato in Economia e Commercio presso l'Università degli Studi di Cagliari, fa ritorno nell'amata isola dove vive, lavora e coltiva la grande passione per la scrittura. Circondato dal mare e affascinato dallo sport è stato travolto improvvisamente dall'amore per il basket. Ha collaborato come redattore con alcune riviste on line che si occupano principalmente di basket NBA, esperienza che lo ha portato a maturare le competenze per redigere e pubblicare la sua prima opera: "Ricordi al canestro" legato alla storia del Basket. Nel 2024 ha pubblicato la sua seconda, dal titolo "La via di fuga" Link per l'acquisto del libro.