Valerio Bianchini: in Italia un coaching omologato, privo di creatività e coraggio
Gli allenatori italiani, seppure come assistenti, oggi operano in NBA. Sono gli stessi che hanno dominato l’Europa, l’uno con la Nazionale spagnola, l’altro con squadre di club. Ettore Messina e Sergio Scariolosono la testimonianza di una grande scuola tecnica italiana. Tutto cominciò con Nello Paratore, l’uomo che aveva imparato il gioco in Egitto e che portò l’Italia alla ribalta internazionale con il 4° posto alle Olimpiadi di Roma. Paratore ebbe il grande merito di emancipare gli allenatori con i suoi insegnamenti ricchi di contenuti e di metodo. Forgiò la generazione che negli anni 60 e 70 trascinò il basket italiano nella modernità e a un’indiscussa leadership nell’Europa Occidentale. Erano allenatori di forte personalità che inizialmente, senza fonti di informazione dagli Usa e sulla scorta degli insegnamenti che giungevano dal Settore Squadre Nazionali e da rari guru come Aza Nikolic, sapevano inventare il gioco su misura per le loro squadre. Su questo impianto si inserirono due «uomini della Provvidenza». Il primo fu Dido Guerrieri, una mente cestistica raffinata che per primo stabilì un contatto tra gli allenatori della NCAA (i college Usa) e gli italiani. Alla sua sequela e stimolati dai grandi clinic che la Fip allora organizzava ogni anno, gli allenatori infittirono i loro viaggi negli USA, ampliando in tal modo i loro orizzonti tecnici. Il secondo «uomo della Provvidenza» è stato Dan Peterson che a una platea di allenatori preparati, insegnò con l’esempio e con splendidi quaderni tecnici, come si gestisce una squadra professionistica e indicò la fondamentale funzione dell’allenatore di comunicare all’esterno i valori della propria squadra. Quello era il basket dei grandi mecenati che affidavano la squadra a manager di solida cultura sportiva. E siamo ai giorni nostri. I nuovi proprietari non si fidano degli uomini di sport e si affidano agli agenti. Sono loro che selezionano gli allenatori secondo criteri di opportunità, i quali vedono i loro giocatori migliori migrare ogni anno attratti da ingaggi allettanti, distruggendo così il castelletto faticosamente messo in piedi nella stagione precedente. La loro preparazione tecnica è indiscussa, ereditata dalla grande tradizione italiana, ma poiché il loro ruolo è stato minimizzato, a volte umiliato, molti tendono a un’ opaca omologazione, priva di coraggio e creatività. Per fortuna le nuove generazioni di spettatori continuano a gradire lo spettacolo in attesa che gli allenatori italiani, oggi «lupi sciolti», diventino «branco».