The Shaq Redemption Show: McKissic, un'altra storia americana

The Shaq Redemption Show: McKissic, un'altra storia americana
© foto di Gilardi/Ciamillo

(di FRANCESCO RIVANO). No non è articolo su Shaq, o meglio, non sullo Shaq che si potrebbe intendere. Si parte da una domanda che spesso mi è stata posta: qual è il film più bello che hai mai visto? Senza dubbio “Le ali della libertà”. Un racconto tratto da una delle penne più illustri dell’editoria moderna, Stephen King , che narra la lotta e la redenzione di un Tim Robbins eccezionale nella veste di un direttore di banca accusato di, si direbbe oggi, femminicidio e condannato all’ergastolo nel carcere di Shawshank. Ad affiancare lo schivo Andy Dufresne nella lotta alla sopravvivenza c’è un mito di Hollywood come  Morgan Freeman. È l’intensità del film ad avermi sempre affascinato, così come il senso di autocontrollo che permette all’uomo di non perdere mai la bussola anche nelle situazioni più critiche. Insomma un inno alla forza di volontà e al “never give up” che dovrebbe fare scuola. Un'altra cosa che mi ha colpito del film? Il suo titolo originale: The Shawshank Redemption. Fintanto che quel film per me è rimasto “Le ali della libertà” non ero mai stato capace di comprendere da dove provenisse il nome di  uno dei giochi più letali dei parquet NBA fra la fine degli ani ’90 e i primi del 2000. Parlo di quell’alley-oop che Brian Shaw, con la palla nell’angolo, alzava per Shaquille O’Neal, pronto a schiacciare, che disorientava le difese impegnate a proteggersi dal triangolo di Tex Winter creato per servire The Big Diesel spalle  canestro. Come si chiamava quel gioco? Shaw-Shaq Redemption, un gioco di parole creato per l’assonanza con il film diretto da Frank Darabont.

Tre sono i Shaq noti alla mia limitata conoscenza del gioco del basket e tutti e tre hanno una connection con la parola redenzione. Di Shaquille O’Neal  e della sua “redemption” con Bryan Shaw vi ho già parlato. Il secondo, in realtà con la ck e qundi Shack, è stato Charles Shackleford, colui che ha ispirato il Flat Top di Vincenzino Esposito, artefice della redenzione di Caserta capace di laurearsi Campione di’Italia  nell’anno in cui ha dato il benservito al suo più grande talento: Mao Santa Oscar.  Del terzo ve ne voglio parlare con calma perché la sua è una storia di redenzione sociale come tante se ne sono raccontate nel mondo del basket statunitense e delle quali non se ne ha mai abbastanza. Shaquielle ora indossa una maglia ben nota ai tifosi del basket europeo, gioca in Grecia, all’Olympiacos e in settimana ha dato una mano importante a coach Bartzokas per battere Ettore Messina e l’Olimpia Milano mettendo a referto 22 punti con il 100% dall’arco dei tre punti. Attualmente vanta 2 titoli di campione di Grecia, ha vinto tre volte la coppa nazionale ellenica e ha partecipato per tre volte consecutive alla Final Four della Eurolega. Ha un passato alle nostre latitudini, nel 2015 a Pesaro per la precisione, dove ha lasciato buoni ricordi sul lato economico visto quanto è fruttato il suo buyout e altri meno belli come l’auto incidentata lasciata nei pressi del tribunale con la speranza di farla franca senza pensare che sulle portiere si stagliasse il logo della Vuelle. A livello collegiale si è messo in mostra con la casacca dei Sun Devils della Arizona State University. Ma se provassimo a immaginare quali fossero i suoi sogni all’interno della Cadillac Catera nella quale trascorreva le notti prima di iniziare la carriera da cestista, ci renderemmo conto che si sta parlando di un miracolato.

La Catera non è esattamente la macchina più comoda realizzata dalla Cadillac, se sei anche alto 1,95, beh allora riposare bene diventa veramente difficile. Eppure quella quattro porte della nota casa motoristica americana non è stato l’alloggio peggiore in cui il giovane Shaquielle ha trascorso le notti. Il copione è simile a quello di molti altri campioni del Basket. Figlio di una ragazza madre e patrigno pastore che li costringe a trasferirsi dall’Indiana a Seattle prima di decidere di averne avuto abbastanza. La strada del ritorno verso l’Indiana è percorsa solo dalla madre di Shaquielle che decide di restare nello stato di Washington per inseguire il sogno del Basket. Da lì in poi la vita, non proprio simpatica fin lì, esagera si diverte a perseguitarlo. In casa sua, durante una festa, l’amico David viene uscito da più colpi da arma da fuoco e nel 2009, nelle strade di Renton, Washington, viene inseguito dalla polizia che lo coglie in flagrante mentre tenta di entrare in una casa dopo aver rotto una finestra. I furti e le effrazioni erano diventati un’abitudine, ma alla fine di quella lunga rincorsa, una volta preso dalla polizia, il carcere diventa la sua dimora. Alcuni mesi in cella cambiano la vita in un senso o nell’altro e quando il giudice lo condanna a due anni di libertà vigilata gli fa la domanda che modifica la prospettiva: Cosa vuoi fare della tua vita ragazzo? La risposta è il frutto dei mille pensieri maturati nelle notti insonni da carcerato: Voglio giocare a Basket Signore!

Il desiderio è semplice da formulare e la volontà non manca di certo, ma integrarsi in società con una fedina penale del genere è tutt’altro che semplice e la vita continua a presentare il conto. È difficile trovare un alloggio anche in couch-surfing, è impossibile trovare un lavoro, ma questa volta Shaquielle combatte contro la vita e si adatta. Ecco la Catera che lo ospita e in quel periodo, al proprietario di un negozio di mobili di Lynwood, fa comodo la mole del ragazzo nativo dell’Indiana per fare trasporti e montaggi. Quando la vita la combatti e non la subisci è essa stessa a ridarti indietro quello che ti ha tolto. La serenità di aver trovato un posto nel mondo permette a Shaquielle di dedicarsi nuovamente al basket. Gira video da inviare ai coach della Division 1 cercando gli indirizzi su Google e alla fine Stan Johnson, assistente della ASU guidata da Herb Sendeck, gli permette di indossare la canotta dei Sun Devils. La parte in salita delle montagne russe, quella dell’incertezza, quella dove accumulare paura, è alle spalle. È da qui che inizia la discesa, la parte più divertente, quella più adrenalinica e che importa se bisogna girovagare per tutto il pianeta Terra per godere dei suoi effetti: Italia, Corea, Turchia, Spagna, ancora Turchia e Lo Stadio dell’Amicizia e della Pace ad Atene dove ormai presta i suoi servigi dal 2020 con la maglia dell’Olympiacos.

 “Quando sei seduto in prigione per così tanti giorni, ci sei solo tu e i muri. Non c'è niente che tu possa fare e nessun posto dove tu possa scappare. In un certo senso, modella la tua mente su un programma o uno schema. E una volta che applichi questo schema a qualsiasi cosa, di solito funziona”. Parole che sarebbero state perfette nella bocca di Andy Dufresne, parole che spingono ad evadere fisicamente o mentalmente da un mondo che non ti appartiene, parole adatte a una nuova storia dal titolo simile “The Shaq McKissic Redemption Show” una storia vera, dura, da film per la quale, come ama dire Shaquielle stesso, c’è ancora da scrivere il finale.

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Francesco Rivano nasce nel 1980 nel profondo Sud Sardegna e cresce a Carloforte, unico centro abitato dell'Isola di San Pietro. Laureato in Economia e Commercio presso l'Università degli Studi di Cagliari, fa ritorno nell'amata isola dove vive, lavora e coltiva la grande passione per la scrittura. Circondato dal mare e affascinato dallo sport è stato travolto improvvisamente dall'amore per il basket. Ha collaborato come redattore con alcune riviste on line che si occupano principalmente di basket NBA, esperienza che lo ha portato a maturare le competenze per redigere e pubblicare la sua prima opera: "Ricordi al canestro" legato alla storia del Basket. E da pochi mesi ha pubblicato la sua seconda, dal titolo "La via di fuga" Link per l'acquisto del libro.