Future Stars International Enterprises:Peter Ezugwu e il coach italiano Gabriele Grazzini insieme per una nuova avventura

Fonte: Ufficio Stampa FSIE
Peter Ezugwu
Peter Ezugwu

Future Stars International Enterprises (FSIE) è il nome della nuova attività dell’ex cestista Peter Ezugwu, apprezzato in Italia non solo per le doti professionali messe in luce nella militanza in diverse società dello Stivale, ma anche per le sue qualità morali. Opera in Arizona e Peter ne è il fondatore. Si tratta di una scuola di sport e di vita a cui si affianca il lavoro della Futures Stars Global Foundation (FSGF), impegnata nel sociale.

E’ proprio Peter a raccontarci i dettagli e come tutto è nato: «Quando ho smesso di giocare lì in Italia, mi è stato proposto di portare i giovani dell’Assigeco Casalpusterlengo qui, per fare una camp. Sono venuti in dodici o tredici e da lì è nata la nostra attività. Abbiamo iniziato ad organizzare campus e programmi per i bambini. La prima cosa è stata trovare delle scuole che volessero collaborare con me. Una volta che abbiamo trovato la prima, che era una scuola privata, le altre hanno seguito. Sono stato tanto fortunato perché ha lavorato con noi un “district”, si chiama così, ovvero un gruppo di trenta scuole. Abbiamo trovato dipendenti, allenatori che volessero lavorare con i bambini, fare training e programmi partendo da zero. Future Stars è nata così. Ora proseguiamo con la nostra attività, con programmi, squadre e campionati di tutti gli sport: basket, pallavolo, calcio, baseball, football americano. Siamo in continua crescita, ai nostri programmi hanno partecipato più di 5000 bambini e proprio in questi giorni ho ricevuto una proposta per avviare una nuova scuola di basket. Il principio è il “pay to play”, ovvero la gente paga per giocare e, visto che il nostro lavoro sta avendo tanto successo, l’obiettivo è quello di aprire un vero e proprio centro sportivo. Parallelamente al lavoro di FSIE, c’è anche quello della Future Stars Global Foundation (FSGF) con la quale ci impegniamo nella crescita della comunità. Si tratta di programmi di sostegno alle persone meno fortunate, per essere coinvolte nei nostri lavori, avere una vita migliore. Ci rivolgiamo per esempio a ragazzi con disabilità, autistici. Tutto questo grazie ai nostri sponsor che ci consentono di dare enormi benefici a questa gente. Inoltre, siamo impegnati in campagne contro il bullismo, fenomeno molto marcato qui, tra i bambini nelle nostre scuole. Hanno bisogno dell’aiuto e del sostegno della nostra comunità, di atleti professionisti che possano far sì che cambi la mentalità di questi ragazzi che, chissà per quali motivi e disagi, si “rifugiano” negli atti di bullismo. Ci sono anche tanti ragazzi che non hanno la disponibilità economica per partecipare ai nostri programmi ed anche in quel caso, ci attiviamo per fornire loro il sostegno che consenta una partecipazione. Poi ci sono tanti altri aspetti più complessi».

Chi ha voluto “toccare con mano” questa importante realtà è stato Gabriele Grazzini, allenatore “Made in Italy” che recentemente si è recato in Arizona. Da cosa nasce cosa e… Peter e Gabriele hanno scoperto di avere tante idee comuni ed anche la voglia di realizzarle insieme: «Dopo una bella stagione ad Omegna, sono rimasto senza squadra _ dichiara coach Grazzini _ Ho schivato qualche “trappola”, ho scelto di non svendere la mia professionalità perché so che il mio duro lavoro e la mia storia meritano rispetto. Ho ancora la faccia giovane, ma anche dieci anni tra vivai e prime squadre di LegaDue e DNA, impreziositi da due Coppe Italia: non voglio calciarli via solo perché “c’è crisi”. Ho iniziato a girare i palazzetti di mezza Italia per rimanere aggiornato ed aspettare la mia chance. Già da tempo avevo sentito parlare della “Future Stars” ed a fine settembre, quasi per caso, ho scambiato due parole con Peter, persona che ho sempre apprezzato per l’atteggiamento positivo che aveva in campo. Da lì è nata l’idea di andare a vedere coi miei occhi come lavora. Mi ha ospitato a casa sua in Arizona, come se ci conoscessimo da sempre. L’ho seguito come un’ombra e sicuramente è nata un’amicizia che è destinata a sfociare in una partnership professionale molto appagante: amo l’idea di “sport” più “solidarietà” più “crescita personale”».
Ma che mondo cestistico ha trovato Grazzini lì? «Splendido, molto vicino alla mia natura competitiva e dai pochi fronzoli. Si potrebbe scrivere un libro, vista anche la mole di appunti che ho preso... _ sorride _ Prima di essere ospitato da Peter ho trascorso una settimana da solo a New York (il sogno di una vita), e l’ho attraversata in lungo ed in largo tra le sue università, con il mio bloc notes sempre in tasca. Cito qualche episodio che spieghi bene le mie sensazioni: ho assistito a diversi allenamenti della St. John’s University seduto accanto al leggendario coach Gene Keady che, peraltro, mi ha offerto snack e bibite come fossi un suo nipotino. Coach Lavin ed il preparatore Dixon non si sono mai risparmiati nel rispondere alle mie numerose domande. Addirittura Dixon durante un allenamento mi ha preso per mano e portato nel suo ufficio per darmi una “lezione privata” di un’ora con tanto di disegnini!
Un giorno ho visitato la Fairfield University, mi hanno lasciato assistere all’allenamento del mattino, ho pranzato con la squadra (di cui Sidney Johnson è capo allenatore e Tyson Wheeler un assistente, li ricordate?), e la sera mi hanno organizzato il viaggio andata-ritorno alla partita con l’autobus dei loro tifosi. Tutto questo nella settimana dei loro rispettivi esordi in campionato, quando la tensione raggiunge livelli altissimi».

Una serie di esperienze straordinarie oltre che professionalmente formative, dunque, e la possibilità di insegnare il proprio basket, insieme a Peter Ezugwu: «Mi è piaciuto vedere in palestra persone di ogni età, a volte intere famiglie. I bambini di 8 anni si cimentano con canestri e palloni regolamentari e sono molto ricettivi nel sentirci parlare di pick and roll o difesa a zona. Vedeste poi come si “ammazzano di botte” senza battere ciglio... Forse in Italia ci facciamo troppe paranoie e ci creiamo troppi alibi: i ragazzi scoprono il “vero basket” troppo tardi e non ho ancora capito il perché. Una cosa poi mi ha messo davvero a mio agio: la disciplina. Peter punta molto sull’allenare la tecnica ma anche sul rispetto delle regole e dei compagni, c’è un clima di sana e genuina competizione. Nella sua academy i ragazzi imparano a stare insieme giocando a basket. Mi riconosco molto in questo. Sono poi riuscito a condurre interi allenamenti in americano e ne vado orgoglioso».

Il background di giocatore dà sicuramente un qualcosa in più a Peter, per partire da quelli che sono gli insegnamenti che lo sport gli ha lasciato e trasmetterli ai ragazzi: «Diciamo che essere un ex giocatore, non è una cosa importante di per sé _ ammette Ezugwu _ Diventa importante nel momento in cui questo si “sfrutta” per aiutare le altre persone. Io quando giocavo ho imparato come si lavora, come si perseguono i propri obiettivi ed arrivare ad avere ciò che si vuole, come accettare i difetti e lavorarci su per migliorare, essere forte, non mollare mai. Questo è ciò che l’essere giocatore insegna. Poi conta come si usano queste caratteristiche nella vita normale. Io lavoro più di ottanta ore alla settimana, ci sono sere in cui non vado a letto fino alle 3 di mattina, tra fare programmi, pagare i dipendenti, stilare il budget, trovare nuovi partners e nuovi allenatori, allenare io in prima persona, curare le strategie e le collaborazioni con altri gruppi. Ci sono tante analisi di mercato da fare».

Insomma, Peter Ezugwu si dedica veramente anima e corpo ai progetti di FSIE e FSGF. Lo ha potuto constatare anche coach Grazzini, nel periodo di sua permanenza in Arizona: «Nei quindici giorni in cui sono stato lì, non ha mai avuto una giornata uguale alle altre. Le uniche costanti sono svegliarsi molto presto, alle sei circa, per andare a fare pesi, e andare a dormire oltre l’una, dopo aver finito di rispondere a tutte le e-mail. Nel mezzo, una continua serie di attività e riunioni da rimanere storditi! Giusto per farvi capire, nel giro di un paio di giorni abbiamo fatto visita ad un paio di centri di assistenza per bisognosi, incontrato importanti media internazionali, fatto allenamenti nelle sue “academy”, parlato con il Sindaco di Phoenix, e tra una cosa e l’altra mi ha fatto conoscere Lance Blanks, GM dei Suns.
Al suo fianco, i primi veri collaboratori sono la moglie Stacy ed i loro figli, persone genuine che danno il loro forte contributo alla causa. Se poi avanza del tempo, ci sono sempre decine di telefonate, e-mails e chiamate Skype a cui rispondere...»

Negli Stati Uniti lo sport è visto e vissuto in maniera diversa rispetto all’Italia (questo si capisce già dai programmi scolastici, per esempio), per i giovani americani riveste un’importanza fondamentale. Per quanto riguarda il basket, ci sono anche delle differenze nei metodi di insegnamento, ma come dice Peter “il basket è basket, in tutto il mondo”: «Per i giovani americani lo sport è la vita. Ci sono tanti ragazzi che hanno situazioni personali difficili e lo sport costituisce una via d’uscita importantissima _ dichiara l’ex cestista _ Con lo sport riescono, per due o tre ore al giorno, a sentirsi uguali agli altri, a coloro con cui competono e possono mettere da parte ciò che di negativo, magari, capita a casa, con gli amici. Qui l’attività sportiva aiuta i ragazzi a diventare dei leader, ad entrare nei business. Gli ex giocatori anche solo di college, se sono abbastanza intelligenti, ricevono sempre offerte per lavorare nelle aziende, soprattutto in ambito di vendita perché lo sport insegna tenacia e perseveranza. Per quanto riguarda basket italiano e americano, i ragazzi danno tutto ed ogni singolo componente di una squadra si sente importante, ha il proprio ruolo all’interno del team. La pallacanestro è la pallacanestro… è sempre lei. Sì, ci sono alcune cose un pochino diverse, ma alla fine il gioco è uguale e sia i ragazzi italiani che quelli americani giocano con tanta passione. Ecco, voi avete il minibasket, qui non c’è, se giochi a basket, giochi a basket. Anche se hai 9 anni giochi con gli aiuti, giochi per stoppare, prendere sfondamenti, con aggressività, fai pressing. Tutto, da subito».
Un ragazzo italiano può imparare tanto da un pari-età americano e viceversa: «Prima di tutto cultura, cultura, cultura! _ dice Ezugwu _ Vita, esperienza, aprire la mente ed avere una visione del mondo completamente diversa. Sia il ragazzo italiano che quello americano, con esperienze simili imparano davvero tutto ed è un’esperienza che si dovrebbe fare. Chi viene qui a fare un camp internazionale, vive in famiglia, quindi respira davvero la nostra vita ed è tutto bagaglio culturale. Viceversa funziona allo stesso modo. Sono scambi di importanza fondamentale, ma non solo in ambito sportivo, sono proprio essenziali per la vita. Per esempio, ancora oggi quando dico che ho giocato in Italia, tanti mi rispondono “ma come? In Italia si gioca a basket? Pensavo si giocasse solo a calcio”. C’è sempre questa forma di ignoranza, si rimane sempre stupiti della passione con la quale si vive il basket anche lì da voi. FSIE lavora proprio su questo e stiamo perfezionando un programma internazionale per quest’estate, in cui sarà dato spazio alla crescita dal punto di vista cestistico, poi all’insegnamento e/o perfezionamento della lingua inglese attraverso delle lezioni giornaliere, momenti dedicati all’educazione alimentare ed al lavoro atletico, grazie alla presenza di un insegnante incredibile che ha lavorato anche in NBA e propone un programma specifico per i giocatori di pallacanestro. E’ un’opportunità davvero importante ed io sono sicuro che i ragazzi, da quando arriveranno a quando andranno via, quindi in quattro settimane, noteranno cambiamenti di fisico, di gioco e di mentalità incredibili, tutte cose che costituiranno un’esperienza importantissima per la loro vita futura».

Parola di uno che è arrivato in Italia da giovanissimo ed all’Italia resta sempre legato: «L’Italia è la mia seconda casa. Tante persone che ho conosciuto quando giocavo lì sono state molto importanti nella mia vita. Quando sono arrivato in Italia ero giovane, avevo 22 anni, quindi il vostro paese mi ha anche sviluppato come persona. Ho avuto e mantengo ancora relazioni umane importanti in Italia e credo che anche i giovani italiani abbiano bisogno di vivere esperienze come quelle che proponiamo noi qui. Perché le esperienze che vivi a 15 o 16 anni possono cambiare la vita, per sempre».

E allora, come si dice dalle parti di Peter, “stay tuned”, perché FSIE darà presto sue notizie!