Toni Cappellari nella Hall of Fame dell’Olimpia Milano

Fonte: olimpiamilano.com
Toni Cappellari nella Hall of Fame dell’Olimpia Milano

In occasione dell’ammissione di Toni Cappellari nella Hall of Fame dell’Olimpia Milano, il giornalista Werther Pedrazzi – che ha seguito le gesta dell’Olimpia degli anni ’80 di cui Cappellari era il general manager – ha scritto per olimpiamilano.com il suo ricordo.

Era una notte buia e tempestosa…
Ma no, quello era Snoopy, l’irriverente bracchetto di Charles Schulz, con il solito incipit dei suoi reiterati. tentativi letterari. …
Eppure…
Di (abbastanza) buio c’era anche l’angusto ridotto che al glorioso Pianella di Cantù fungeva da sala stampa – vecchio Pianella che proprio in questi giorni è giunta notizia del suo definitivo abbattimento, sic transit gloria mundi… basket quoque, lasciando memorie e rimpianti –  e (abbastanza) tempestoso, in effetti, fu anche il primo incontro (scontro), professionalmente parlando, con Toni Cappellari.

Era un periodo durante il quale la Grande Olimpia sembrava accusare un lento riflusso – si sarebbe ripresa, eccome – e sulla stampa, nei commenti, affiorava qualche critica, le solite vecchie storie di flusso del gioco poco efficace ed, eventuali, favori arbitrali. Al proposito, per onestà intellettuale, occorre ammettere che a quel tempo Milano era la sede dei maggiori quotidiani nazionali – Corriere, Repubblica, Il Giorno, Il Giornale – e che in ogni ambito, soprattutto in quello sportivo, lo sguardo era rivolto ad un panorama ben più ampio di quello locale, e, mentre in altre piazze la critica era spesso tollerante ed accondiscendente rispetto alle squadre della città, qui si faceva sempre più spesso severa.

Detto questo. Tornando a quella sera.
Dopo la sconfitta subita al Pianella, Dan Peterson, freddo e bianco come un ghiacciolo all’orzata, entrando in sala stampa si limitò a sibilare.
Nessun commento. Lascio la parola alla Società.
Si aprì la porta ed irruppe Toni Cappellari.
Noi stavamo acquattati alla prima postazione sulla destra, appena dopo la porta.
Lui si bloccò. Puntandoci contro il dito.
E tu… Proprio tu… Che da giocatore eri un brocco patentato e sapevi soltanto picchiare come un fabbro ferraio… Proprio tu, adesso osi parlare?
Madonna. Zitto e incassare.

Il fatto era che il giovedì precedente, durante l’incontro di Coppa dei Campioni contro Limoges, avevamo visto Dino Meneghin partire dalla lunetta puntando dritto, con il gomito alzato a scimitarra, verso Stephane Ostrowski, lungo ed esile (molto tecnico) centro dei francesi, e nell’articolo ci eravamo lasciati un tantino andare paragonando l’episodio con quello del vecchio malvissuto del Manzoni, che nei Promessi Sposi fomentava la rissa per il pane… Quanti errori si commettono in gioventù. Ne approfittiamo, a posteriori, anche per scusarci con SuperDino, combattente duro ma leale se mai ce ne è stato uno. 

Tornando alla fatal sera canturina, come dicevamo, zitti e incassare, e meditare.
Se questi alzano il ponte levatoio, la fortezza diventa inespugnabile.
Poiché di questo si trattava.  
Un castello, un feudo, anzi, una corte imperiale. 
Il Gran Signore, Gianmario Gabetti, riservato ed austero, che tutto demandava, salvo chiederne puntualmente conto, al Gran Ciambellano, inteso in senso positivo, Toni Cappellari, come eminenza grigia e depositario della “politica” feudale, gestendo alleanze e conflitti, e al Gran Condottiero, Dan Peterson, colui che, sublime stratega,  conduceva l’armata sui campi di battaglia.

Tagliando corto, occorre dire che Cappellari e Peterson vivevano praticamente more uxorio. La sinergia come fonte ispiratrice di tanti trionfi. Quelli dei mitici anni ‘80. Con 8 finali consecutive, 5 scudetti vinti, 2  Coppe dei Campioni, 1 Coppa Intercontinentale, 1 Coppa Korac e 2 Coppe Italia.
Formidabili.
Durante tutto questo, per noi, dopo quel primo burrascoso scontro, Toni Cappellari diventerà, e per sempre rimarrà, quello a cui Sergino, andandosene a dormire, lasciava le chiavi del suo locale, regalando a noi le notti magiche del Torchietto, dove si celebravano vittorie e lenivano sconfitte, con un mazzo di carte fino al sorgere dell’alba sul Naviglio.
Quello, Toni, che più di ogni altro ci sostenne nella nostra umile fatica durante la stesura di Scarpette Rosse, fino all’organizzazione di una meravigliosa presentazione presso il Quanta Village che lui allora gestiva.

Rimpianti? Nessuno. Meravigliosi ricordi….
E dire che Toni Cappellari general manager lo divenne quasi per caso.
A quel tempo alla guida dei settori giovanili dell’Olimpia c’era una triade di giovani allenatori, costituita, oltre che da Cappellari, dai compianti Guglielmo Roggiani e Franco Casalini. Questi ultimi due erano soliti sfottere Toni.
Ehhh … Te sei il cocco di Rubini… Ahhh… Perché te c’hai lo stile Olimpia, mentre noi siamo dei poveri peones…
Così fu che, in occasione di uno spareggio in trasferta a Roma, Barabba, Renzo Bariviera, aveva dimenticato a casa nientemeno che la maglietta da gara. Un allenatore delle giovanili doveva prendere un aereo al volo e portargliela. Naturalmente Cesare Rubini scelse Cappellari per la missione d’emergenza.
Era il suo primo incarico di supporto alla società, fuori dal campo.
L’occasione fa l’uomo… general manager. Se ne possiede le qualità.

Antonio Cappellari dei Conti Rizzà di Mengalvio, nobile famiglia originaria di Enego, parte alta della provincia di Treviso, la diplomazia papalina l’aveva nel sangue, avendo tra i suoi antenati anche Papa Gregorio XVI, pontefice dal 1831 al 1864.
Ed è a questo proposito che occorre ricordare quello che sovente non viene adeguatamente sottolineato, ovvero, che fu proprio lui l’uomo cui venne affidata la transizione dall’Età dell’Oro (Simmenthal-Bogoncelli-Rubini) a quella del Grande Impero (Gabetti-Dan Peterson). Ancora lui quello che aveva praticamente chiuso, con tanto di accordo firmato, la trattativa con Berlusconi e Galliani per il passaggio dell’Olimpia al Gruppo Fininvest, con l’intento di creare a Milano una Polisportiva. E sempre a lui toccò tornare da Berlusconi per dire che non se ne faceva niente, poiché il patriarca Gabetti gli aveva comunicato che l’Olimpia sarebbe rimasta al figlio Gianmario.
Sempre Toni l’artefice di alchimie anagrafiche ed ortografiche quando Adolfo Bogoncelli lo spedì in America… Era stato Jim McGregor, “il gitano rosso”, amicissimo di Bogoncelli a dire al patron Olimpia. “Adolfo, c’è un playmaker americano appena tagliato dai San Antonio Spurs, non lasciartelo scappare. È uno che in Italia spacca il … ai passeri“

Così Bogoncelli ordinò a Cappellari. “Vai! E non torni fino a quando non hai messo insieme la documentazione per la cittadinanza italiana di Mike D’Antoni”.
Furono i giorni della Stanza 27, un immenso androne, a Pittsburgh sede dell’Archivio storico americano dell’Immigrazione, dove Toni passò quindici giorni incollato ad una sedia, faldone dopo faldone, scorrendoli anno dopo anno a partire dal primo Novecento, fino ad imbattersi in un certo Giuseppe Di Antonio, partito da Norcia e cronologicamente compatibile con un nipotino fenomenale playmaker: Michael Andrew D’Antoni… Beh, che volete? Più che possibile che nella confusione degli sbarchi di immigrati e nella trascrizione in inglese un Di Antonio fosse diventato D’Antoni.

Da cosa possibile Cappellari, la fece diventare una cosa certa. Michelino arrivò cosi.
Una sera di maggio.
E quella fu l’unica volta in cui Toni rischiò un serio incidente diplomatico.
Adolfo Bogoncelli possedeva una splendida villa che dominava tutto il Golfo del Tigullio e volendo il suo nuovo playmaker vicino chiese a Cappellari di sistemarlo al Grand Hotel di Rapallo. “Fagli vivere qualche giorno alla grande. Mostragli la qualità della vita in Italia”. Impose Bogoncelli.
Un mezzogiorno al Grand Hotel di Rapallo servivano un menù speciale: gran fritto misto alla piemontese. E Toni decantava la specialità.
“Delicious… delicious…” Se lo gustava Michelino, addentando un boccone ben rosolato.
“Cos’é?“
“Brain… Cervello, polmone e rognone”. Rispose Cappellari.
D’Antoni sbiancò di colpo, si alzò di scatto e filò verso il bagno. Non rientrò più nella sala ristorante. Toni lo ritrovò sul lungomare. Per una settimana Mike D’Antoni non rivolse più la parola a Cappellari.

Di aneddoti e storie più serie ce ne sarebbero tante.
In una vita di basket come quella di Toni Cappellari.
Il suo inserimento nella Hall of Fame dell’Olimpia Milano, oltre che cosa buona e giusta, è un atto dovuto. Meritatissimo.