Swee’ Pea, dal playground di New York il viaggio verso Pesaro

Swee’ Pea, dal playground di New York il viaggio verso Pesaro

(di FRANCESCO RIVANO). Se c’è una cosa che mi ha sempre affascinato del basket d’oltreoceano sono le leggende che si narrano nei playground. Giocatori come Lew Alcindor, Julius Erving, lo stesso Bill Russell sono stati dominatori dei campetti di quartiere. Laddove le telecamere non esistono, gli arbitri si tengono a distanza e l’unica cosa che ti possa tutelare è il rispetto che ti sei guadagnato con il talento, il sudore della fronte e una buona dose di sfrontatezza, sono nati, cresciuti e a volte morti dei veri e propri miti del basket made in USA. Se c’è una città nella quale lo street basket domina la scena da decenni quella è New York: il Rucker Park, The Cage, il Brooklyn Bridge Park, l' Happy Warrior playground, sono gli scenari che fanno da sfondo a storie al limite fra realtà e mito, nei quali la narrazione tramandata negli anni dai frequentatori ha partorito gli eroi della palla a spicchi capaci di entrare di diritto nell’annoso dibattito di chi sia stato il migliore di sempre. “The Goat” Earl Manigault, Connie “The Hawk” Hawkins, Joe “The Destroyer” Hammond, Rick “Pee Wee” Kirkland, Ed Smith solo per citarne alcuni.

Ed è proprio nei campetti della grande Mela che nasce “il miglior talento newyorkese dai tempi di Lew Alcindor”. Se dovessimo dare ascolto a tutte le profezie e agli appellativi che sono stati affibbiati a chiunque abbia mostrato un minimo di talento all’interno di un campo da Basket statunitense, oggi la Hall of Fame avrebbe più componenti di quanti abitanti ha la stessa New York. Lloyd Daniels, classe 1967 rispetta tutti i crismi del classico maudit, ossia del dannato capace, più o meno, di farsi strada fra le difficoltà grazie a un talento innato. Orfano di madre, padre alcolizzato, scolarizzato quanto un cane randagio costretto a tutto pur di sopravvivere, in età adolescenziale si mette in mostra nei campetti di New York dominando la scena. Swee’ Pea, questo è il suo nickname per la somiglianza a “Pisellino”, il figlio adottivo di Braccio di Ferro, in campo sembra incontenibile e la facilità con cui riesce a far canestro è inversamente proporzionale alla sua capacità di leggere anche solo una semplice parola scritta in stampatello. Mostrando la sua mercanzia tecnica nei playground Lloyd attira l’attenzione dando il via a un giro nelle montagne russe che lo porterà a sfiorare la casacca dei Runnin’ Rebels di UNLV, a sprofondare in una crack-house del Nevada, fino a rischiare di piombare nell’oscurità eterna beccandosi quattro pallottole sul petto una volta tornato nel Queens.

“Get well soon” firmato da un amico di nome Michael. È questo augurio di pronta guarigione che gli da la forza di riprendere in mano la sua vita portandosi dietro un ricordo di piombo incastonato nella spalla come fosse una gemma preziosa. Dalle leghe minori Pisellino ricostruisce il suo presente e crea uno spiraglio per il suo futuro. È Jerry Tarkanian a dargli una chance nel basket che conta e, ancor prima che lo faccia Tim Duncan, scende in campo con la maglia nero argento degli Spurs al fianco dell’ammiraglio David Robinson. L’esperienza di Tark “The Shark” agli Spurs non è poi così lunga e una volta perso l’appoggio del coach che già aveva provato ad aprirgli le porte del College Basket a Las Vegas, Lloyd inizia il suo peregrinare. Indossa la 24 dei Lakers prima ancora che quella canotta diventi iconica sulle spalle di Kobe e nella stagione 1995/1996 cede al richiamo d’oltreoceano accasandosi nella Scavolini Pesaro guidata da Valerio Bianchini. Cosa ci si può aspettare da un semianalfabeta, drogato, vivo per miracolo in quella che quest’anno è stata insignita del ruolo di capitale italiana della cultura? La verione 2.0 di Joe Pace? Lloyd si presenta e lo fa mostrandosi per quel che: una persona affabile, generosa, che ama parla con chiunque mostri interesse nell’ascolto, ma soprattutto quando scende in campo fa capire il perché nei playground gli si prospettasse una carriera florida almeno quanto quella di Kareem. Chi lo ha conosciuto personalmente giura che la sua più grande dote umana sia l’altruismo anche se in campo non sempre lo dimostrava. Bastava soffermarsi a ogni suo tiro forzato sulle espressioni facciali di Walter Magnifico per capire che Swee Pea spesso cadeva in quella hero-ball che il playground ti impone di giocare se vuoi emergere. Ma quando la sua vena d’altruismo si espandeva al gioco, era festa per tutti i suoi compagni che si trovavano a tu per tu con il canestro pescati da un passaggio visionario di Lloyd. Un piccolo Magic sbarcato nelle Marche per deliziare una città che si nutre di basket. Il suo bilancio? Un settimo posto, tante chiacchiere sul suo passato difficile, l’eliminazione ai quarti per mano della Fortitudo, partite sopra i 40 punti e una dichiarazione a fine anno, poi ritrattata, nella quale dichiarava di “non poter giocare per Bianchini”. E un amicizia con quel Michael, ricordate quello del biglietto di pronta guarigione?, che gli aveva dato indicazioni sui locali da frequentare in giro per l’Europa nelle trasferte di Coppa. Il cognome di quel Michael? Andate a cercarlo nel referto della partita di esibizione che si disputò nel ’85 a Trieste fra la Stefanel e la Juve Caserta. Unico indizio: frantumò un tabellone sulla testa del Tato Lopez (in alternativa c'è il video in fondo all'articolo...).

Dopo l’esperienza di Pesaro Lloyd tornò a girovagare fra nuove chance nella NBA, viaggi in Porto Rico, Turchia, Grecia e un ritorno alle nostre latitudini in Lega Due a Scafati finché nel 2005 decide di aver dato abbastanza. Di certo, quando da adolescente volava a canestro nelle Mecca del Basket, non aveva minimamente idea che la vita gli avrebbe concesso di conoscere tutti quei posti con culture e abitudini differenti. Per Lloyd “Swee Pea” Daniels il mondo era confinato in quel quartiere degradato di Brooklyn e gli unici compagni di squadra un pallone da basket e il crack. Eppure lo sport gli aperto orizzonti insperati, indicato vie differenti, fatto conoscere persone per bene, insomma gli ha dato la possibilità di credere in quella vita che, nel Queens, qualcuno armato di pistola, aveva provato a portargli via e se ora lo cercate nei quartieri degradati di New York non lo troverete soprafatto dalla droga, ma lo troverete sempre con la palla in mano a cercare di insegnare ai ragazzi in difficoltà che grazie al basket si può emergere e che da fragile bambino come Pisellino si può diventare forti e retti come Braccio di Ferro.

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Francesco Rivano nasce nel 1980 nel profondo Sud Sardegna e cresce a Carloforte, unico centro abitato dell'Isola di San Pietro. Laureato in Economia e Commercio presso l'Università degli Studi di Cagliari, fa ritorno nell'amata isola dove vive, lavora e coltiva la grande passione per la scrittura. Circondato dal mare e affascinato dallo sport è stato travolto improvvisamente dall'amore per il basket. Ha collaborato come redattore con alcune riviste on line che si occupano principalmente di basket NBA, esperienza che lo ha portato a maturare le competenze per redigere e pubblicare la sua prima opera: "Ricordi al canestro" legato alla storia del Basket. E da pochi mesi ha pubblicato la sua seconda, dal titolo "La via di fuga" Link per l'acquisto del libro.