LBF A1 Techfind: l'impresa di Faenza del capomastro Paolo Seletti

(di EDUARDO LUBRANO). A volte basta la parola, come recitava un vecchio spot. Dici Faenza e pensi al basket. Femminile. Non c’è solo quello nella splendida cittadina romagnola, ma il basket femminile di questo posto ha fortemente caratterizzato alcuni anni all’inizio del terzo millennio. Il pubblico faentino ricorda bene che dal 2005 al 2009 la squadra faentina è stata protagonista: nel 2005 con la finale scudetto persa con Schio e quella di Eurocup Womens persa con la Dinamo Mosca, nel 2006 ancora una finale scudetto (vinto dal Ribera). L’anno successivo due finali, quella scudetto persa con la Phard Napoli e quella di Coppa Italia vinta con Napoli. Vittoria bissata nel 2009 in finale con la Lavezzini Parma. Da lì le strade del Club Atletico Faenza si sono fatte impervie tanto che solo nel 2021 la città ha riabbracciato la serie A1. Non è più il CAF ma il Faenza Basket Project nato nel 2015 e che oggi festeggia.
Perché’ dopo tre salvezze consecutive conquistate i playout, quest’anno la squadra si è guadagnata la permanenza nella massima serie con diverse giornate di anticipo sulla fine della stagione regolare ed è nella lotta dei playoff. Artefice di questo doppio successo, un gruppo di giocatrici di livello, lo staff tecnico ed in genere lo staff. In panchina Paolo Seletti, 48 anni, con un’esperienza notevole e tanto per dirne una, il coach che ha portato Cosa Masnaga ai playoff di serie A1 tre anni fa crescendo talenti come Matilde ed Eleonora Villa.
- Insomma uno che di costruire ne sa parecchio. Seletti come chiamare quello che avete fatto quest’anno: miracolo, sorpresa o…?
“Impresa. Nel senso di un’impresa – anche se il termine non mi appartiene – ma se lo intendiamo nel senso di un qualcosa costruita col lavoro e la dedizione totale di tutte e tutti, allora è il concetto e la parola giusta. Siamo partiti da un certo livello e siamo arrivati ad un livello superiore. Se posso citare una canzone, direi la ‘La costruzione di un amore” di Ivano Fossati”.
- “La costruzione di un amore spezza le vene dalle mani, mescola il sangue col sudore se te ne rimane…” Eppure a gennaio avete perso le due lunghe Reichart e Parzenska, le sue ragazze hanno un carattere forte.
“Fortissimo, assolutamente sì. Questa cosa che una squadra si compatti nelle difficoltà accade più spesso nel basket femminile rispetto a quello maschile. Perché le donne si attivano per sentimento. Non per rivalsa, agonismo, rabbia, no. Sentimento. Il doppio colpo degli infortuni di Marie ed Alexandra (crociato, ndr) per una settimana ci ha messo un po’ giù ma le leader del gruppo non hanno mai smesso di crederci e hanno trasferito alle altre questa voglia di non lasciarsi andare. Ma nell’intervallo della partita col Geas (vinta da Faenza, ndr) ho visto le facce delle mie giocatrici ed ho capito che qualcosa di buono stava per accadere”.
- Torniamo ala costruzione. Dopo il doppio infortunio avete dovuto ricostruire qualcosa. Come?
“Ci siamo accorti, io, Giovanni Sferruzza e Cristina Bassi, senza i quali sarei molto in difficoltà, che il tempo e le energie che abbiamo investito sulle giocatrici che pensavamo avrebbero giocato poco o niente, è stata una risorsa. Perché’ al momento giusto loro ci hanno dato quel qualcosa in più senza il quale saremmo affondati probabilmente. Non abbiamo mai mollato attenzione e cure nemmeno sulla tredicesima del gruppo e questo sforzo ci è tornato indietro”.
- Dunque lavoro sulle giovani, come nel suo DNA
“Certo. E speriamo di riuscire mettere le basi per costruire un settore giovanile che possa continuare nel lavoro di questa stagione. Il nostro modello di riferimento è Costa Masnaga ma attenzione non è facile arrivarci e non è detto che ci si possa arrivare in tempi brevi. Anzi lo sforzo in questo senso deve essere nel breve e lungo periodo. E forse…”
- Ci descrive la sua squadra da un punto di vista tattico?
“Abbiamo pensato che non volevamo essere una squadra media che entra in tutte le categorie statistiche a metà classifica. Ci siamo concentrati sul fare alcune cose e nel farle meglio. La transizione offensiva, il gioco senza palla, l’uno contro uno egli spazi larghi, attaccare il pitturato. Ed in generale il tentativo di costringere chi gioca contro di noi a giocare in modo diverso dal solito. La difesa? Quella me la tengo per me…”
(EDUARDO LUBRANO)