Oscar Schmidt: si può essere un GOAT senza aver giocato nella NBA?

Oscar Schmidt: si può essere un GOAT senza aver giocato nella NBA?
© foto di FIBA

(di FRANCESCO RIVANO). Quando si vuole esaminare la carriera di un cestista si tende sempre a confrontarla  con i migliori di sempre; si fanno paragoni, si stilano graduatorie. Ci si chiede: cosa ha vinto? In che campionati ha militato? che casacche ha indossato? E solitamente si prende come valore assoluto il percorso fatto nella lega più spettacolare del mondo: la NBA. È da lì che poi si diramano tutti i requisiti per poter entrare di diritto nella inutile discussione sul GOAT. I due più accreditati sono sempre loro, Michael Jordan e LeBron James; se limitassimo la concorrenza ai soli giocatori europei, nonostante l’avvento di fenomeni attuali come Doncic, Jokic e Antetokoumpo, non si può non citare Drazen Petrovic; se provassimo a confrontare con altri sport e a dedicarci ad esempio al calcio, ovviamente Diego Armando Maradona e Pelè sarebbero i nomi più ricorrenti. Dopo questa premessa è facile classificare nella categoria “giocatore anonimo” colui che, al draft NBA è stato selezionato al sesto giro alla chiamata numero 131, che non solo non ha mai vinto un titolo NBA, ma non ha mai messo piede su un parquet della Lega americana, che non ha mai vinto un titolo europeo e nemmeno una Lega europea. Per poter prendere in considerazione un giocatore del genere e renderlo meritevole dell’attenzione dell’appassionato medio di Basket serve che ci dia una mano qualcuno di influente, una mano autorevole, non vorrei esagerare nel dire divina ma quasi, ecco, servirebbe una mano santa.

Sono consapevole del fatto che leggendo il luogo di nascita del nostro protagonista odierno storcerete il naso ma per incentivarvi nella lettura vi do un’assicurazione: questo giocatore ha una connessione importante con Michael Jordan, LeBron James, Drazen Petrovic, Diego Armando Maradona e Pelè.
Natal, Brasile, Febbraio 1958. Come tutti i ragazzi nati nella patria carioca il calcio è lo sport di riferimento. Nello stato del Rio Grande non ci sono alternative, ogni cosa che si presta a essere presa a calci entra di diritto nella categoria “pallone da calcio” e viene utilizzata per emulare i miti con la maglia verde-oro. Da questa malattia del calcio, che affligge il 150% della popolazione brasiliana, non è esente il figlio di Oswaldo e Janira. Almeno fino a quando a 13 anni non si trasferisce a Brasilia. Nella capitale federale del paese sudamericano le prospettive cambiano così come le passioni, cosicché quando l’Uniao Vizinhanca gli propone di indossare la canotta della sua squadra di Basket il nostro protagonista accetta e cambia rotta. È da qui che nasce una carriera che dura circa un trentennio fatta di palloni che trovano il fondo della retina, portata alle nostre latitudini da una mente illuminata, ovviamente figlia dei balcani. Il 6 ottobre del 1979 a San Paolo del Brasile ci si gioca la Coppa Intercontinentale: il Bosna di Sarajevo parte forte, sembra indirizzare la gara in maniera decisiva, ma l’allenatore degli slavi non si fida dei continui canestri di un certo Schmidt in maglia Sirio. 42 punti, tante lacrime versate prima per la frustrazione e poi per la gioia, e titolo ai carioca. Bogdan, noto Boscia, è uno che non dimentica e tre anni dopo, di fronte a colui che gli propone un contratto per una squadra italiana di A2 esprime un desiderio: Cavaliere, mi porti a Caserta questo brasiliano. E Giovanni Maggiò esaudisce.

È qui che nasce il mito della Juve Caserta, è qui che i giovani “scugnizzi” Nando Gentile e Enzino Esposito diventano stelle del basket tricolore, è da qui che la leggenda di Oscar Schmidt si fa largo nella pallacanestro mondiale. Promozione al primo anno e un escalation che porta la squadra campana a diventare ben presto una realtà importante della Serie A. A livello realizzativo nessuno sta dietro a Oscar: dal 1983 al 1992 vince per ben sette volte la classifica dei marcatori, regala il primo titolo in assoluto alla Juve, la Coppa Italia, nel 1988, arriva nel 1989 a disputare la finale di Coppa delle Coppe conto il Real Madrid al Pireo. Quella non è stata una partita, quella è leggenda, è storia del basket europeo, è un cimelio da tenere in vetrina così che chiunque ami il gioco possa ammirarlo. Una sfida epica tra due dei più grandi talenti del basket mondiale che si conclude con la vittoria delle merengues, non senza polemiche, per 117 a 113 dopo un tempo supplementare. La sfida personale tra Drazen Petrovic e Oscar recita 62 a 44 per il croato. E pensare che i due avrebbero potuto giocare assieme oltreoceano. Drazen infatti da lì a poco si sarebbe unito ai New Jersey Nets, squadra che nel 1984 aveva selezionato al draft, si quello di Michael Jordan, proprio Oscar Schmidt. “Ok Oscar, se firmi sarai un giocatore NBA, ma sappi che non potrai giocare con la tua nazionale.” Arrivederci e grazie, Oscar rinuncia perché la casacca verde-oro è la sua seconda pelle, perché rappresentare il proprio paese vale molto di più che far divertire un popolo che si ciba di Hot Dog e Coca Cola. Con la maglia del Brasile Oscar disputa ben 5 Olimpiadi e diventa il miglior marcatore di sempre della rassegna a 5 cerchi. È convenzione pensare che a far decidere che gli USA dovessero schierare i professionisti alle Olimpiadi, dando vita al Dream Team ’92, fosse stata la sconfitta alle Olimpiadi di Seoul nel 1988 contro l’Unione Sovietica. C’è chi sostiene invece che quel pensiero sia nato dopo la finale dei giochi Panamericani disputatasi nel 1987. A Indianapolis David Robinson e Danny Manning guidano la nazionale a stelle strisce convinti di vincere facile. I 46 punti di Oscar e la vittoria del Brasile per 120 a 115 mette realmente per la prima volta nella testa degli statunitensi il tarlo che “forse non esistiamo solo noi”

Ritorniamo per un attimo a Caserta. Da metà anni ’80 fino agli inizi dei ’90 la Campania diventa l’epicentro del talento sportivo. Oscar in maglia bianconera e Diego con la 10 del Napoli incendiano un popolo facile all’esaltazione. Il PalaMaggiò e il San Paolo brulicano di tifosi che vivono il basket per Caserta e il calcio per il Napoli come una religione e nonostante i fior di campioni che calcano tanto i prati verdi quanto i palazzetti di tutta Italia, nessuno è in grado di raggiungere il livello di gioco dei due fenomeni delle compagini campane. Ma mentre il Napoli di Maradona arriva allo scudetto  nel 1987 e nel 1990, Caserta si arrende a un passo dal traguardo tanto da porsi delle domande. E se cedessimo Oscar? È l’estate del 1990 quando il campione brasiliano, idolo della folle, non è più il punto di riferimento dell’attacco casertano. Via Oscar, dentro Charles Shackleford eTellis Frank. Oscar non capisce, non la prende bene e peggiora il suo stato d’animo quando comprende che, ancora di proprietà dell’allora Phonola, non verrà ceduto a una concorrente ma dato in prestito in A2 a Pavia. Ma l’affronto maggiore che subisce Oscar è quello di vedere gli ex compagni guidati da Marcelletti raggiungere il tricolore proprio l’anno della sua partenza. Lo strappo tra Oscar e la stanza dei bottoni della Juve Caserta non si ricucirà più.  Dopo Pavia Oscar continua a perforare le retina in Spagna al Valladolid,  per poi fare ritorno in Brasile fino a chiudere la sua carriera nel 2003 con la maglia dl Flamengo a quota 49.973 punti in carriera.

È attualità l’avvenuto sorpasso in testa alla classifica dei migliori marcatori di sempre perpetrato dal mangia record LeBron James, ma nel frattempo Oscar è entrato a far parte della Naismith Basketball Hall of Fame nel 2013 nonostante sia stato scelto 130 chiamate in ritardo rispetto a The King, nonostante abbia 4 titoli NBA in meno di The King, nonostante abbia ad oggi 1.506 partite in meno nella NBA di The King perché alla fine con The King condivide un innato talento per il gioco del Basket e un soprannome che, affibbiatogli a Caserta, è garanzia di regalità sportiva: O Rei, proprio come Pelè.  
In realtà il vero nickname di Oscar è un altro; Oscar è riconosciuto a livello globale come Mao Santa, che tradotto direttamente dal portoghese significa Mano Santa. Proprio quella mano che ho chiesto agli albori di questo articolo per poter rendere accattivante, a quei pochi che non lo conoscessero, un giocatore con una carriera “diversa” da quelle che sono abituato a raccontare. Proprio quella mano che lo ha reso eterno nella storia del gioco grazie alla sua capacità di indirizzare il pallone, sempre e per sempre,  laddove tutti si aspettassero che andasse: dentro a un canestro.

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Francesco Rivano nasce nel 1980 nel profondo Sud Sardegna e cresce a Carloforte, unico centro abitato dell'Isola di San Pietro. Laureato in Economia e Commercio presso l'Università degli Studi di Cagliari, fa ritorno nell'amata isola dove vive, lavora e coltiva la grande passione per la scrittura. Circondato dal mare e affascinato dallo sport è stato travolto improvvisamente dall'amore per il basket. Ha collaborato come redattore con alcune riviste on line che si occupano principalmente di basket NBA, esperienza che lo ha portato a maturare le competenze per redigere e pubblicare la sua prima opera: "Ricordi al canestro" legato alla storia del Basket. E da pochi mesi ha pubblicato la sua seconda, dal titolo "La via di fuga" Link per l'acquisto del libro.