Crisi dell'All Star Game, vittima della società dell'apparenza

Crisi dell'All Star Game, vittima della società dell'apparenza

(di FRANCESCO RIVANO). Sarà l’età che avanza, sarà che crescendo cambia il modo di vedere, percepire, concepire l’andamento del mondo che mi circonda ma, ultimamente, sempre più spesso direi, capita di fare dei pensieri a cui qualche anno fa manco avrei pensato. Un esempio? Noto con amarezza quanto sia cambiata l’impressione che mi trasmettono alcune giornate o alcuni eventi che prima ritenevo apprezzabili e che ora invece hanno perso l’appeal che li rendeva importanti. I giorni di festa per dirne una, come potrebbe essere il Natale. E non parlo del Natale vissuto da bambino, ma parlo del Natale vissuto in quanto famiglia, vissuto sulle solide fondamenta del voler stare assieme. Basta, per la maggior parte delle persone quel Natale non esiste più, esiste solo una rincorsa infinita ai regali da acquistare on-line che finisce nel momento in cui si consuma un menù studiato a tavolino per mesi per essere divorato in pochi attimi. Un altro esempio che mi duole evidenziare sono quelle che dalle mie parti si chiamano “casciandre”, la classica gita fuori porta nei giorni di festa. Un tempo orde di ragazzi si radunavano dal giorno prima per andare a fare la spesa, decidere cosa mangiare e cosa bere, analizzare strategicamente, in base alla scelta delle ragazze, quale dovesse essere la location per poterle raggiungere più rapidamente possibile, per poi concludere la serata tutti assieme tra canti, schitarrate, fuitine amorose e chiacchiere gioviali. E ora? Ora si ordina il cibo su Glovo, ci si connette via Zoom e si pranza ognuno guardando il proprio Smartphone parlando tramite Wathsapp. Perchè questa riflessione proprio oggi? Perche la percezione di superficialità che ha investito certi avvenimenti sociali ha colpito parallelamente un evento sportivo nato come “festa” e diventato ormai “noia”: l’All Star Game NBA.

Facciamo qualche passo indietro e arriviamo a comprendere il motivo per cui, nel 1951, l’allora Commisioner Maurice Podoloff, lo stratega del marketing della Lega Haskell Cohen e il proprietario dei Boston Celtics Walter Brown, partorirono l’idea di dar vita alla partita delle stelle. L’appeal della NBA di primi anni ’50 non era minimamente paragonabile a quello attuale. Il Baseball la faceva da padrona in quanto Sport più seguito dal grande pubblico statunitense, e la neonata Lega di basket professionistico viveva all’ombra anche del college Basket e del Football americano. Il mondo della palla a spicchi inoltre era stato appena scosso da un terremoto che portava un nome ben preciso: point-shaving scandal. Per riabilitare lo sport del professor Naismith dall’onta della corruzione e delle partite truccate Cohen suggerì al Commissioner Podoloff che un a patita di esibizione fra i migliori giocatori della Eastern Division contro quelli della Western Division avrebbe dato al pubblico quello zuccherino di cui aveva bisogno per far decollare il rapporto d’amore con il Gioco e Mister Brown mise a disposizione “casa sua”, il Boston Garden, per ospitare l’evento. L’idea era quella di imitare l’All Star Game della Major League.

È quindi dal 2 Marzo del 1951 che, esclusa l’interruzione del 1999 dovuta al lockout dei giocatori , le stelle della NBA si danno battaglia per dimostrare di essere grandi tra i grandi. O forse dovrei usare il verbo al passato. Eh si, perchè in questi più di 70 anni di storia la partita delle stelle ha guadagnato sempre più il rispetto e l’amore del pubblico fino a raggiungere un picco dal quale ci si è lasciati andare in una discesa libera che nemmeno Christian Ghedina ai tempi d’oro sarebbe stato capace di gestire. A far da carburante alla partita delle stelle è sempre stato l’orgoglio. L’All Star Weekend era il periodo dell’anno da segnare nel calendario dei grandi giocatori. Ognuno di loro era motivato dalla voglia di dimostrare di essere il campione tra i campioni. Si sono susseguite sfide epiche negli anni 60’ fra il nucleo dei Grandi Celtics e le star della Western Division; negli anni ’70 si sono distinti Jerry West, Willies Reed, Rick Barry, Walt  Frazier; non parliamo nemmeno del tasso tecnico e agonistico raggiunto durante le sfide degli anni ’80. Magic, Larry and The Doctor per poi pian piano lasciare la scena a Jordan, i Bad Boys, Barkley e il duo Stockton to Malone capaci di accompagnarci fino a Kobe & Shaq, Tracy Mcgrady, Allen Iverson, Steph Marbury e Vice Carter. Ognuno dei campioni citati era mosso dal senso di dominio sul resto del gruppo, una sorta di Coppi sulla Cuneo-Pinerolo, una specie di Pantani all’Alpe d’Huez, vere e proprie prove di forza. E il pubblico andava in visibilio.

E ora? In quale esatto momento ci si è resi conto che dell’All Star Game si può e si vuole fare volentieri a meno? Io una data ben precisa l’avrei: 9 febbraio 2003, Philips Arena di Atlanta. Michael Jordan scende in campo per l’ultima volta nella partita delle stelle con l’intenzione di voler lasciare un marchio indelebile, come se ce ne fosse stato ancora bisogno, nella storia dell’evento. La partita va all’Overtime e all’ultimo possesso il tabellone recita una perfetta parità. A chi diamo l’ultimo tiro? Domanda che ha solo una risposta e Jordan non tradisce. Fade-away, retina che si muove, Eastern Conference avanti di due con pochi secondi sul cronometro. Tutti in piedi in Georgia, a osannare per l’ultima volta un giocatore immenso, irripetibile, inimitabile dal resto del mondo…tranne che da uno. Quel “uno” ha bene in mente come è stato trattato durante l’All Star Game del 1998. Aveva solo 19 anni e il Re indiscusso della Lega di fine anni ’90 si era fatto beffe di lui, dandogli una lezione mai dimenticata. Torniamo a quei pochi secondi rimasti sul cronometro ad Atlanta. È l’ora della vendetta: oramai è tutto pronto per decretare la vittoria dell’Est, per dare l’ennesimo titolo di MVP a Jordan, per tornare finalmente a casa dopo una partita infinita, ma nessuno ha fatto i conti con la volontà di Kobe. Il resto della storia mi auguro lo conosciate, in caso contrario recuperatevi i filmati, non ve ne pentirete. Quello è il punto di non ritorno, quello è il momento esatto dove si comprende che un picco del genere sarà impossibile da replicare, quello è l’attimo preciso in cui l’asticella della personalità è posta così in alto che nessuno potrà più raggiungerla e le sorti dell’All Star Game puntano decisamente verso Sud. Apatia, sufficienza, boria, supponenza. Devo andare avanti con gli aggettivi? Non ci si riprenderà più anche perché i “campioni” della Lega mirano a riservarsi e non a dimostrare, puntano ad apparire e non a giocare, ambiscono a dibattere e non a competere. E la gente? La gente è stufa, nauseata anzi, cosa ancora peggiore, la gente è indifferente. La Lega le sta provando tutte, sta cambiando format, sta mischiando le carte, tenta di attirare l’attenzione farcendo il tutto con una buona dose ipocrita di beneficienza, ma ciò che urge realmente è una rivoluzione radicale nel modo di pensare e di agire dei protagonisti, un cambio di mentalità.

Ne sono capaci i giocatori NBA? Non credo proprio, come non se siamo capaci noi come società. Finchè l’apparenza l’avrà vinta sulla sostanza il trend non cambierà, finchè l’obiettivo sarà quello di immortalare ogni momento in una foto da postare tutto rimarrà uguale e il Natale resterà la festa del regalo a tutti i costi, le casciandre resteranno incontri apatici fra conoscenti e l’All Star Game della NBA resterà l’evento meno appetibile nel panorama dello sport targato Stati Uniti d’America.
Pronto a essere smentito!!!

----- Francesco Rivano nasce nel 1980 nel profondo Sud Sardegna e cresce a Carloforte, unico centro abitato dell'Isola di San Pietro. Laureato in Economia e Commercio presso l'Università degli Studi di Cagliari, fa ritorno nell'amata isola dove vive, lavora e coltiva la grande passione per la scrittura. Circondato dal mare e affascinato dallo sport è stato travolto improvvisamente dall'amore per il basket. Ha collaborato come redattore con alcune riviste on line che si occupano principalmente di basket NBA, esperienza che lo ha portato a maturare le competenze per redigere e pubblicare la sua prima opera: "Ricordi al canestro" legato alla storia del Basket. Nel 2024 ha pubblicato la sua seconda, dal titolo "La via di fuga" Link per l'acquisto del libro.