Alberto Cerruti: "Possiamo salvare il basket solo copiando il Barcellona"

Fonte: La Stampa (Biella)
Alberto Cerruti:  "Possiamo salvare il basket  solo copiando il Barcellona"

Le voltarono le spalle?
«No, non lo fecero, col tempo le persone capirono, nessuno a Biella mi voltò le spalle».
 

Oggi Alberto Cerniti ha 79 anni, era il 1971 quando l'industriale del lanificio di via Cernaia abbassava la saracinesca della storica Libertas Biella, ponendo la parola fine sull'associazione sportiva allora più gloriosa della città. Fu il presidente di Ottorino Flaborea, Carlo Caglieris, Massimo Lucarelli, nomi che hanno fatto la storia del nostro basket. Alla sua guida la Libertas disputò otto campionati di serie A, raggiungendo due volte (nel '61 e nel '64 il 5° posto). Oggi alla soglia degli 80 anni non si perde una partita dell'Angelico, il cui fondatore - destino vuole -è suo nipote Alberto Savio. «Una storia che parte da lontano - dice lui -, che merita di essere raccontata». Regalandoci la verità di un passato remoto e rispolverando lo spettro di un passato che può tornare presente: «Come io temo», rivela Alberto Cerruti. Lo zio del basket moderno: «Che a 79 anni occupa immeritatamente una poltrona del consiglio di amministrazione di Pallacanestro Biella, forse è passato il tempo di fare il dirigente di basket, spazio ai giovani».

Alberto Cerruti, lei potrebbe realizzare un libro sul basket a Biella. Cosa scriverebbe nel primo capitolo?
«Scriverei la storia di una grande famiglia, quella della Libertas e quella di Pallacanestro Biella, in momenti diversi della storia due realtà ricche di analogie. Due società sportive che hanno messo in primo piano la qualità della vita offerta ai propri giocatori. A discapito dei quattrini, questo lo sappiamo bene. Una notte i dirigenti della Simmenthal vennero a Biella per soffiarci Ottorino Flaborea, Flaborea ci raccontò tutto. C'era grande correttezza e penso che questo valore sia stato tramandato nel tempo».

Flaborea fu poi ceduto alla Ignis Varese. Guarda caso. Perché?
«Flaborea rimase a Biella più tempo del previsto, fu una questione affettiva, poteva andarsene molto prima, ma non lo fece. Non nego che fu scelta Varese anche perché con Milano i rapporti non erano idilliaci, il presidente dell'Olimpia, il dottor Bogoncelli, era una persona per bene, ma i suoi dirigenti non potevo vederli. Ricordo ancora quando Rubini alla Rivetti minacciò l'arbitro sventolando una sedia al cielo. Si sentivano i padroni del basket e in realtà, come la storia conferma, lo erano sul serio».

La Rivetti. Una palestra che stagione dopo stagione diventava sempre più piccola per la serie A.
«Dichiaravamo capienza di mille persone, ma in realtà non ci stavano, ogni volta mille erano quelle che restavano fuori senza biglietto. La situazione era difficile da gestire». Invece nel 1971 la storia si concluse di botto.

Dica la verità: la Rivetti non fu l'unico problema. Vero?
«La Rivetti era un problema, ma non certo l'unico. Quando decisi di lasciare è perché ero rimasto solo, due amici mi aiutavano, ma alla fine a chiudere i conti ero sempre io. In tanti anni ho sempre pensato che il mecenate nello sport è una soluzione temporanea ma molto pericolosa. Io tentai di coinvolgere altre forze. Tutti sanno come finì».

In 13 anni di suo mandato da presidente non ci fu mai uno sponsor biellese. Perché?
«Penso che il grande problema fu ed è ancora uno: ciò che produce Biella non fa parte della grande distribuzione commerciale. Guarda caso la Libertas fu sponsorizzata dalle camice Aramis di Bergamo e dai gelati Cec-chi di Torino che si legò a noi perché voleva competere con Eldorado».

Lei definisce gli attuali soci di Pallacanestro Biella, di cui lei fa parte, un gruppo di mecenati moderni?
«E' il giusto spaccato, ma uno spaccato che non va bene, temo che possa capitare ciò che accadde nel '71. Per dare futuro e programmazione a Pallacanestro Biella servirebbe almeno 1 milione di euro in più a stagione».

Non ha un'idea per Pallacanestro Biella?
«Una società sportiva è della città e non del singolo. La mia sarà un'idea utopistica: però per funzionare davvero Pallacanestro Biella dovrebbe essere come un mini Barcellona nel calcio, anziché 10 soci che mettono 100, ci vorrebbero 100 soci che mettono 10. Solo così si può lanciare un progetto duraturo nel tempo».

Lei cosa provò, quali sensazioni, dopo aver chiuso la Libertas?
«Ne uscii nauseato, per oltre vent'anni non ho più visto una partita di basket dal vivo. Poi quando mio nipote Alberto Savio decise di mettersi in questa avventura mi sentii in dovere di dargli una mano, mettendoci concretamente anche dei quattrini. Mi fa piacere come Alberto abbia ereditato le mie passioni». Ci furono Flaborea, Caglieris, Lucarelli. Oggi, con la globalizzazione, ci sono Sefolosha, Jerebko e Soragna.

Non le sembra tutto troppo simile?
«Nel 1969 a Trieste perdemmo di un punto la finale scudetto Juniores contro Livorno. Era la squadra di Lucarelli, Celoria, Sarselli, Zaffagnini, De Biasio e Bocca. Alcuni hanno proseguito nel basket, altri son diventati uomini. Abbiamo sempre avuto il pallino di lanciare i giovani».

Stefano Zavagli