NBA - The Reign Man: gloria e mancati trionfi di Shawn Kemp a Seattle
(di FRANCESCO RIVANO). Non so perché, ma molto spesso, nelle serate invernali, nelle quali il freddo e il clima ostile mi costringono a casa, mi ritrovo affacciato alla finestra con un filo di malinconia e un ricordo che ricorre frequente nei miei pensieri. Mia madre intenta a preparare la cena dopo una giornata trascorsa ad insegnare fuori sede (e la vita da pendolare di un isolano non è poi così piacevole); mio padre non ancora rientrato dal lavoro che ci ha portati a vivere nel meraviglioso scenario di uno degli ultimi Osservatori Astronomici rimasti operativi in tutto il pianeta; mio fratello in giro con gli amici a bordo di quel “SI” della Piaggio che all’epoca vedevo bello come una Harley da collezione ed io, poco più che bambino, intento a schierare tutti i soldatini di stagno di cui disponevo (dovevano essere almeno 22), non certo per farli affrontare in battaglia ma per simulare l’ennesima partita di calcio post compiti scolastici. La Tv accesa, anche se nessuno la guarda, forse rimasta su quel canale dopo la maratona di cartoni animati pomeridiani. Ad attirare la mia attenzione è una voce dall’accento marcatamente straniero che riconosco essere quella del tipo che sponsorizzava un famoso tè definendolo a suo parere il “Numero Uno”. Mi giro e vedo un uomo di colore volare con una casacca verde e un numero stampato sulla schiena, il 40, come se stesse camminando sospeso in aria, quasi a sbeffeggiare Newton e le sue leggi sulla gravità. Mia madre si affaccia dalla cucina, stupita dal non sentirmi gracchiare le classiche frasi da telecronista navigato con cui mi auto raccontavo le partite tra soldatini e mi vede con gli occhi fissi sul televisore come rapito da un immagine ipnotica. “Tutto bene?” mi ridesta. “Si mamma, tutto bene”. Distolgo lo sguardo dalla TV, registro inconsciamente nel cervello il ricordo di ciò che ho visto e riprendo imperterrito e affrettato la mia partita prima che il tavolo nella quale si sta svolgendo venga rivendicato per trasformarsi da stadio gremito a scenario della nostra cena.
Avrete sicuramente intuito due cose: la prima è che ero malato di sport già in tenera età, ma questo ben poco vi interessa; la seconda è che il ragazzo di colore con la 40 sulle spalle era Shawn Kemp, The Reign Man. In ambito sportivo la regola principale è vincere; se vinci sei qualcuno, se lo fai da protagonista sei un idolo, un’icona, una divinità; se lo fai da comprimario sei perlomeno un talismano portafortuna. Se non vinci non sei nessuno e a nessuno importa quanto hai sacrificato, quanto bene hai fatto, quanto hai contribuito a rendere ancora più bella la vittoria del tuo avversario. E già, perche senza gli sconfitti non ci sarebbero i vincitori e senza l’antagonista non ci sarebbe il protagonista. Ma qui non siamo in campo e le luci non si accendono solo su chi ha raggiunto l’obiettivo finale, non nel mio modo di vedere lo sport; nella mia visione le luci si accendono su chi ha reso grande lo sport, anche se solo per periodi limitati di tempo, quindi mettetevi comodi perché l’occhio di bue sta per accendersi su Shawn Kemp. Shawn di luce puntate addosso ne merita tante e le merita anche particolarmente luminose. Non sto qui a raccontarvi tutto il trascorso pre - NBA, ma che Kemp fosse un elemento raro anche nella ricchissima e iperproduttiva fucina di talenti del basket statunitense, lo dimostra il fatto che sia stato dopo Moses Malone, il secondo giocatore a sbarcare nella NBA direttamente dalla High School. Non che sia stata proprio una scelta quella di saltare il college, diciamo che è stata più che altro una forzatura. Strappato un accordo con Kentucky il giovane Shawn, dalle poco spiccate attitudini allo studio, si fa prendere in castagna con due catene d’oro rubate al figlio del coach. Pacca sulle spalle (per non dire calcio nel sedere) e niente college basket, via diretti nella NBA. A sceglierlo sono i Seattle SuperSonics e nella città del Grunge Shawn incanta. È la diciassettesima scelta del draft 1989, che vide andare alla uno “Never Nervous” Pervis Ellison e che ha dato i natali NBA a giocatori del calibro di Glen Rice, Tim Hardaway e Vlade Divac. Kemp mette subito in mostra doti atletiche fuori dal comune e il connubio con Gary Payton, nell’anno successivo al suo ingresso nella NBA, arricchito dalla guida di Coach George Karl, da vita a una delle squadre più divertenti della Western Conference per gran parte degli anni ’90.
Kemp è un ottovolante, sempre pronto a chiudere con il botto qualsiasi azione innescata dalla difesa e dalla ripartenza di The Glove, le ospitate allo Slam Dunk Contest sono pura formalità ma ciò che stupisce è la insensata capacità di chiudere al ferro anche di fronte alla difesa schierata. Primo turno di Play off 1992, i Sonics affrontano i Golden State Warriors e gara 4 è piuttosto nervosa. Kemp strappa il rimbalzo (20 per lui in quella gara) e si affida alle mani sapienti di Payton che spinge il contropiede. La palla finisce a Nate Mc Millan, attuale coach di Indiana, che si perde, raddoppiato sulla linea di fondo, e si trova obbligato a scaricare ad un compagno piazzato sul perimetro. Nate trova Shawn che, con una partenza al fulmicotone (208 cm portati a spasso come fossero 30 in meno), fa partire l’audio della Kemp Airline: “Gentili clienti benvenuti a bordo della Kemp Airline, allacciate le cinture di sicurezza, il volo sta per partire”. Non so bene cosa abbia pensato Alton Lister, centro dei Warriors, sappiamo solo che una frazione di secondo dopo il decollo si è ritrovato con il culo per terra a far da sfondo ad una delle schiacciate più dirompenti mai viste, con tanto di taunting all’atterraggio che oggi sarebbe valso un sacrosanto tecnico. La “Lister Blister”, così come venne rinominata quella incredibile giocata che è ancora oggi una delle schiacciate più famose dell’intero panorama del basket mondiale. Seattle è imbarazzantemente bella e i Sonics sono una realtà in continua evoluzione. Nel ’93 dopo aver affondato i Jazz e i Rockets si arrendono in finale di Conference ai Suns di Sir Charles, ma sembra che ormai i Sonics siano maturi per giocarsi le chance di titolo. L’anno successivo sono invalicabili in casa e chiudono la regular da primi a Ovest con un Kemp idilliaco. Il primo turno contro Denver sembra debba essere una formalità. I Nuggets, guidati dall’insormontabile Mutombo griffano la prima assoluta nella quale la numero otto elimina la numero uno ai playoffs, e tanti saluti ai sogni di gloria dei Sonics. Sembra che i playoffs per i Sonics siano un tabù, anche in virtù della prematura sconfitta nel ’95 sempre al primo turno per mano dei meno quotati Lakers. Le apparizioni alla post season non sono mai all’altezza di quanto viene messo in mostra durante la regular e serve un inversione di tendenza. Karl ottiene ancora una volta la fiducia dalla dirigenza di Seattle e il 1996 è l’anno della definitiva consacrazione. Kemp gioca 79 partite a circa 20 e 11 di media, il tasso di spettacolarità all’ombra dello Space Needle è a livelli mai raggiunti prima e l’approdo ai Playoff non è mai in discussione. I Kings vengono eliminati in quattro gare al primo turno mentre nelle semifinali di Conference Hakeem e i titolati Rockets, ancora alla ricerca della targa di Kemp, vengono asfaltati senza appello con uno sweep memorabile. In finale di Conference c’è l’attesissimo scontro fra le due combo play-lungo più forti della lega. I Jazz di Stockton e Malone portano Gary e Shawn fino a gara 7 ma il dominio fisico e tecnico di Kemp ha la meglio sul Postino & Co. e i Sonics si affacciano finalmente sullo scenario delle Finals. La finale è contro Jordan e le finali contro Jordan si sa come vanno a finire. Kemp gioca il suo miglior basket di sempre ma non basta, 4-2 Bulls. Nonostante la sconfitta i Sonics escono a testa alta dal confronto con il giocatore più forte di sempre e Kemp viene riconosciuto da molti addetti ai lavori come il reale MVP di quelle Finals nonostante il premio venga ritirato dal cannibale MJ.
Quella che sembrava dovesse essere la consacrazione definitiva si rivela invece essere l’inizio della fine. Da li in poi Shawn inizia a scavarsi una fossa sempre più profonda; le liti per l’ingaggio non ritenuto consono alle sue prestazioni e le prime turbe mentali lo portano via da Seattle verso Cleveland. A Cleveland spiegherà ancora tanto basket ma verrà sopraffatto dall’abuso di sostanze stupefacenti poco compatibili con le vita di uno sportivo. Cresce di peso a dismisura e quello che un tempo era il miglior Dunk-Man dell’intera lega non riesce a saltare neanche più il classico foglio di giornale. Passa per Portland e Orlando e addirittura flirta con Montegranaro per la quale firma per poi rescindere ancora prima dell’inizio della stagione. Quattordici anni nella lega di cui almeno una buona metà passati sopra i tre metri e cinque centimetri, eppure Shawn poteva avere molto di più di quello che ha avuto. Nessun titolo, nessun anello, un Larry O’Brien Trophy annusato ma soffiatogli sotto il naso da sua Maestà MJ; eppure Shawn merita di essere ricordato per il vero campione che è stato. Le luci stanno per spegnersi, rimane qualche candela accesa e una musica soave e triste accompagna la sua fine. La voce è quella di Layne Staley, front man degli Alice in Chains, che proprio nel 1996, anno delle Finals dei Sonics, appare per l’ultima volta in pubblico, in un concerto Unplugged, con una versione irripetibile di “Down in a hole”. “I’d Like to fly, but my wings have been so denied” e queste parole sono perfette tanto per il cantante quanto per Shawn, entrambi arrivati al capolinea della loro carriera e non solo. Le ali di The Reign Man sono state tarpate dalla sua stessa follia che gli ha impedito di dominare il mondo dello sport preferendo cercare qualcosa di meglio nella droga e nell’alcool. Proprio come Layne, Shawn si è lasciato sopraffare, è caduto giù, dentro a quel buco dal quale è stato impossibile rialzarsi, togliendo a tanti appassionati il piacere di vederlo una volta di più in volo verso il ferro, togliendo a tanti bambini, come lo ero io durante quella partita di calcio tra soldatini di stagno, la possibilità di essere travolti da un gesto unico e ammaliante come il volo del Regnante.
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Francesco Rivano nasce nel 1980 nel profondo Sud Sardegna e cresce a Carloforte, unico centro abitato dell'Isola di San Pietro. Laureato in Economia e Commercio presso l'Università degli Studi di Cagliari, fa ritorno nell'amata isola dove vive, lavora e coltiva la grande passione per la scrittura. Circondato dal mare e affascinato dallo sport è stato travolto improvvisamente dall'amore per il basket. Ha collaborato come redattore con alcune riviste on line che si occupano principalmente di basket NBA, esperienza che lo ha portato a maturare le competenze per redigere e pubblicare la sua prima opera: "Ricordi al canestro" legato alla storia del Basket. E da pochi mesi ha pubblicato la sua seconda, dal titolo "La via di fuga" Link per l'acquisto del libro.