Vincredibile ma vero: Carter alle Olimpiadi di Sydney

Vincredibile ma vero: Carter alle Olimpiadi di Sydney
© foto di Youtube

Prima settimana di Olimpiadi Parigine e se devo descriverle con la gestualità, quella gestualità che il mondo riconosce come solo nostra, italiana, allora riunisco tutte le dita della mano sul pollice e faccio oscillare il polso. Ricordate il gesto che faceva Spike Lee al Madison Square Garden a ogni canestro di Gallinari? Esattamente quello , il gesto che noi usiamo quando vogliamo esprimere un dissenso. Questo per rimarcare le polemiche che finora hanno contraddistinto il cammino di alcuni azzurri verso le medaglie. Penso alla judoka Giuffrida, allo schermidore Macchi, alla pugile Carini, a Greg Paltrinieri e a tutti i nuotatori che si rifiutano di immergersi nelle acque non proprio limpide e salubri della Senna. Ma mentre per il Judo, la Scherma e il Nuoto subisco passivamente, non essendo esperto, le decisioni che ci vedono costretti a un medagliere ridimensionato, per il Pugilato mi sento di esprimere una singola opinione, ovviamente polemica, che andrà via veloce come il vento prima di iniziare a parlare di ciò che realmente ci interessa: il basket.

Innanzitutto partiamo dal rispetto per la donna, che tanti proclamiamo e sbandieriamo salvo rimangiarci tutto in un sol boccone quando ieri  abbiamo deciso di difendere i colori azzurri perché ci siamo sentiti vittima di un’ingiustizia. Ma è realmente un’ingiustizia? E partiamo dal presupposto che l'algerina Imane Khelif  non è stata allevata sotto ghiaccio e cibata con flebo di testosterone sotto il ring di Parigi e fatta uscire al mondo solo al momento del suono della campana. Si sapeva fin dall’inizio che avrebbe partecipato e soprattutto che il CIO le avrebbe permesso di competere e ritenuta idonea. Senza entrare nel merito di discussioni "molto più complesse di così" l'avventarsi voracemente su una decisione, giusta o sbagliata che sia, della nostra atleta in guantoni e caschetto, per fare campagna elettorale e mostrare i muscoli su una questione politica divisoria è apparso tanto più un tentativo di ottenere consensi che una reale volontà di difendere le motivazioni della nostra atleta e il senso di giustizia in generale e questo spaventa perché se le cause che spingono a fare il bene della cosa comune si fondano su questi presupposti siamo molto più nei guai di quanto pensiamo 

Ve lo avevo anticipato, polemico sì, ma rapido e indolore E ora pensiamo al Basket.  Il torneo olimpico ha una chiara e ben definita squadra favorita, ovviamente gli USA. Ma come si fa a non voler bene al Sud Sudan e a tifare contro la Francia che, per liberarsi del Giappone, visto che di polemiche si parla, ha dovuto appellarsi a una decisione contestata della terna arbitrale?
In attesa che il torneo arrivi alle fasi calde per capire se qualcuno sarà in grado di mettere i bastoni tra le ruote di Team USa quindi vi offro un viaggio, gratis, e di questi tempi non è cosa da poco, sia nello spazio che nel tempo. 
Sempre di Olimpiadi si parla ma si torna a inizio millennio, a Sidney per raccontarvi il gesto più insensato che i giochi olimpici ricordino all’interno di un campo da Basket.

Daytona Beach, nota per lo più per avvenimenti sportivi di natura motoristica, nel gennaio del 1977, dà i natali a Vincent Lamar Carter ed entra di diritto nelle mappe del basket mondiale. Da piccolino Vincent si diletta parecchio con gli sport più amati in Florida, automobilismo e Football e mostra una qual certa propensione con il sax tra le mani, ma la vera passione è la palla a spicchi. Gli anni della High School passano nella ridente e soleggiata cittadina natia tra le varie passioni del piccolo Vincent e concluso il liceo sembra che la via da seguire sia quella del talentuoso sassofonista. L’Università di Bethune – Cookman pone l’attenzione sul piccolo prodigio, ma per fortuna non è l’unico ateneo a volersi accaparrare i servigi del ragazzo di Daytona Beach. L’offerta arriva da North Carolina, e un personaggio che ha avuto un leggero impatto sul mondo del college Basket, l’immortale Dean Smith, intravede nel giovane Vincent Lamar delle caratteristiche che ben potrebbero sposarsi con il gioco del Basket. La capacità più evidente di Vincent? Spiccare il volo oltre i 3,05 metri. Se da un lato essere allenati da una delle icone del basket NCAA è garanzia di successo, non solo nel basket ma anche nella vita (circa il 96% degli atleti sotto la guida di Dean Smith ha raggiunto l’obiettivo della laurea), dall’altro lato serve una dose piuttosto massiccia di pazienza. L’anno da Freshman Vince lo passa per lo più a riscaldare la panchina, tant’è che più volte è tentato di cambiare college e ritornare nella sua amata Florida. Ma la scelta di restare a Chapel Hill è fondamentale per il proseguo della carriera. Assieme a Antawn Jamison porta i Tar Heels alla Final Four nel 1997, anno in cui si conclude la indimenticabile carriera di coach Dean Smith, e nell’anno a seguire, con una stagione da vero e proprio leader tecnico, bissa la prodezza, senza però riuscire a vincere il titolo nazionale. Le due stagioni straripanti al college incoraggiano Vincent a rendersi eleggibile al Draft.  La scelta arriva dalla baia; sono gli Warriors a chiamare l’uomo di Daytona Beach, ma la destinazione cambia subito. Golden State lo scambia alla pari con la scelta numero 4 di quel Draft, lo stesso Antawn Jaminson con cui ha condiviso le annate a Chapel Hill; destinazione Toronto. I Raptors, per usare un eufemismo, non sono proprio la miglior squadra della lega, ma l’entusiasmo in Canada per una franchigia nata pochi anni prima, è spasmodico. La squadra nei primi anni girovaga per tutta Toronto fra lo Sky Dome e il Maple Leafs Garden ma durante la stagione 1998-1999 a Toronto si respira un’aria di rinnovamento.  Nella stagione del lock-out Carter mette in mostra tutto il suo talento vincendo a mani basse il titolo di rookie of the year con 18,3 punti e 5,7 rimbalzi di media. Ma ciò che entusiasma il pubblico sono le gite ad altezze proibitive del ragazzo uscito da North Carolina e, come se non bastasse, la presenza di un fenomeno del genere è accompagnata dalla creazione di un nuovo palazzetto all’avanguardia che diventa il fortino della franchigia canadese. Di chi fu il primo canestro all’Air Canada Centre? Ovviamente una schiacciata, da alley oop di Charles Oakley, di Vincent Lamar nel derby tutto canadese contro i Grizzlies, all’epoca di base a Vancouver. Stagione 1999/2000, i Raptors sono una delle franchigie più divertenti della lega e i cugini Tracy Mc Grady e Vince Carter regalano ai tifosi sprazzi di  gioco irreali. Vince, sopra i 25 punti di media, viene invitato all’All Star Game, non solo come partente in quintetto nella selezione della Eastern Conference, ma soprattutto come partecipante allo Slam Dunk Contest. Dominique Wilkins, Michael Jordan, Kobe Bryant sono tra i più famosi vincitori della competizione che negli ultimi anni ha perso un po’ di appeal e che addirittura nel 1998 e 1999 neanche ha preso il via. Nel 2000 la Lega punta su Carter per rilanciare questa competizione.

Tenetevi pronti, allacciate le cinture di sicurezza e indossate gli occhialini classici per le visioni in 4D. La dimensione in cui stiamo per entrare non è reale, è un mondo a sé stante. Come si fa a spiegare a parole quello che neanche gli occhi riescono a farti credere possibile? Non si può descrivere cosa è stato quello Slam Dunk contest, non ci sono parole per descrivere l’elettricità che quella gara ha trasmesso agli spettatori presenti a Oakland o seduti in poltrona collegati da tutte le latitudini.; non ci sono parole che possano permettere di rendere omaggio a quello che è un evento unico e irripetibile. La rivoluzione Copernicana, la scoperta del fuoco, l’invenzione della ruota, l’allunaggio di Armstrong, la caduta del muro di Berlino. Ecco tutti questi sono eventi  che hanno segnato un cambiamento radicale nella vita dell’umanità. Lo Slam Dunk contest di Oakland è l’evento storico cestistico che ha cambiato la visione del mondo sulle capacità acrobatiche dell’uomo. Le uniche parole che si possono usare sono quelle citate da Vince Carter una volta atterrato dalla between the legs slam dunk su bounce pass del cuginetto Tracy. “It’s Over”. Si fa fatica a ricordare cosa altro sia successo quella sera. Ricordiamo Steve Franchise e TMac darsi da fare per stupire la giuria, ma gli occhi erano solo per il nativo di Daytona Beach. Affondata con l’avambraccio e 360 wind meel; solo un pazzo poteva spingersi così oltre a quella che fino a quel momento sembrava essere la realtà.

Il 2000 di Carter diventa ancora più notevole in estate.  Eccoci alle Olimpiadi: Team Usa è come al solito sulla rampa di lancio per guadagnarsi l’ennesimo Oro Olimpico. È il 25 Settembre e gli Stati Uniti devono affrontare la Francia per l’ultima gara del girone prima della fase eliminatoria. Solita gara a senso unico con i ragazzi a Stelle Strisce che banchettano annoiati sui Bleu sul +15 a 16,10 minuti dal termine (e si, al’epoca si giocava su due tempi da 20 minuti ciascuno). All’improvviso un lampo. Yann Bonato, forse pervaso da un senso di onnipotenza a causa del talento che lo circonda quella sera, pensa bene di uscire dal rimbalzo difensivo con un dietro schiena in virata. La palla viene intercettata da Carter che accende i motori e decolla. Il posto sbagliato nel momento sbagliato: dirige e interpreta Frederic Weis. Frederic, centro di 218 centimetri è stato appena selezionato al draft dai Knicks e non vede l’ora di sbarcare in NBA per dimostrare tutto il suo valore, ma quella sera la sua vita cambia. Si ritrova immortalato nell’istantanea più iconica della storia del Basket mondiale: Air Canada Vince Carter lo salta di netto per andare ad affondare una schiacciata perentoria sottolineata da un urlo disumano tanto quanto lo è il gesto atletico. Quella giocata lancia Carter nell’immortalità del gioco e sprofonda Weis nella depressione che lo porterà a rinunciare ala NBA. La “Dunk de la Mort” eppure Vince non doveva nemmeno essere lì se non fosse stato per il ginocchio ballerino di Ray Allen.

Eccovi fornito un motivo per ripetere quel gesto di cui si parlava all’inizio. Quando ripensate a quella schiacciata, per voi che l’avete vista, o quando la racconterete a chi ancora non la conosce, sono certo che la reazione sia proprio quel gesto come a dire “ma che stai dicendo?”, ma questa vola non per esprimere un dissenso ma per esprimere incredulità. E ora continuiamo a goderci lo spettacolo migliore che lo sport possa offrirci ogni 4 anni, consapevoli che potremmo vivere anche per altre 3 vite, ma un gesto come quello di Vince Carter non lo rivedremo mai più né alle Olimpiadi ne in nessun’altra competizione.